Mercoledì 22 Gennaio 2025
LORENZO GUADAGNUCCI
Magazine

Lo sport, una questione di corpi: "Quelli dei neri ancora non contano"

Discriminazioni, pregiudizi, i miti della meritocrazia e dell’integrazione: il viaggio di Nadeesha Uyangoda

Mario Balotelli, oggi 34 anni, festeggia il gol segnato all’Inghilterra ai Mondiali del 2014 in Brasile. In alto, Nadeesha Uyangoda

Mario Balotelli, oggi 34 anni, festeggia il gol segnato all’Inghilterra ai Mondiali del 2014 in Brasile. In alto, Nadeesha Uyangoda

Si è sempre sentita l’unica persona nera nella stanza, titolo del suo primo fortunato libro, e ora Nadeesha Uyangoda esplora la condizione dei corpi “razzializzati” nel mondo dello sport, generalmente considerato – a torto, dice lei - un avamposto di integrazione e meritocrazia. Uyangoda ha 31 anni, è nata in Sri Lanka, è arrivata in Italia da bambina e ora è un’autrice a tutto campo: articoli, interventi, podcast, libri (l’ultimo è Corpi che contano, editore 66thand2nd, titolo che riprende un famoso saggio della filosofa femminista Judith Butler).

Nadeesha, perché partire dai corpi?

"Perché c’è una dicotomia storica fra mente e corpo. La mente è per gli intellettuali, ovviamente bianchi e fin dal ’700, il corpo invece viene utilizzato da chi fa lavori di fatica, dagli sportivi, e appartiene storicamente alle persone razzializzate, agli schiavi. Ragionare su questa dicotomia permette di osservare come si muovono e sono cosiderati i corpi nella nostra società".

Nello sport vince chi è più bravo. Non è così?

"Credo che la meritocrazia sia un po’ un mito del nostro tempo, anche in riferimento allo sport. Non è proprio vero che vince chi merita di più, perché l’accesso allo sport, in generale e anche nel professionismo, è ostacolato da una barriera costituita da elementi di genere, di classe e anche geografici e razziali".

Per esempio?

"Per esempio se sei una donna la scelta dello sport da praticare sarà influenzata dall’idea che ci sono ‘sport per donne’. Se poi sei nera il campo si restringe ancora. Se non ci sono nuotatrici nere, non è per mancanza di capacità o doti fisiche, ma perché le persone nere sono state storicamente relegate in spazi separati, senza accesso alle piscine, e per uno stereotipo razzista secondo il quale le persone nere hanno le ossa pesanti e sono quindi svantaggiate nel nuoto… E poi c’è una questione di classe. Fare sport costa. Costa per le attrezzature, per il tempo che gli devi dedicare. Molte persone immigrate, per esempio, non riescono a fare sport lavorando quanto lavorano".

Lo sport è però spesso portato come esempio di integrazione degli immigrati e dei loro figli. Non è così?

"A dire il vero in Italia una persona giovane senza cittadinanza non può fare sport ad alto livello, indossare la maglia azzurra, competere nelle gare internazionali. Questa è la normalità. Quando poi un atleta razzializzato, magari di seconda generazione, vince una medaglia, allora le istituzioni sportive e anche quelle politiche cominciano a parlare di integrazione, appropriandosi di un successo senza avere contribuito a realizzarlo".

In che senso?

"Nel senso che per ogni atleta nero che vince una medaglia per l’Italia, ce ne sono molti altri che vengono esclusi dalle competizioni".

È un problema “solo“ di norme sulla cittadinanza o c’è dell’altro?

"C’entra anche una certa idea di che cos’è un italiano. Quando Marcell Jacobs ha vinto la medaglia d’oro alle Olimpiadi, il presidente del Coni lo ha indicato come esempio di integrazione. Ma lui non è un immigrato, è figlio di un’italiana e uno statunitense. Questo accade ciclicamente per Paola Egonu, Myriam Sylla e altri atleti. Quando si vede vincere una persona che non rientra nei canoni estetici e culturali prestabiliti diventa un esempio di integrazione…"

Lo sport però ha messo in pratica lo ius soli che la politica non vuole.

"Ammettere il tesseramento di ragazzi senza cittadinanza permette alle Federazioni si scoprire talenti e avviarli alle competizioni, ma è solo un palliativo".

Perché reputa importante la figura di Mario Balotelli?

"Perché penso che la sua vicenda abbia tratteggiato una linea di discontinuità, per quanto labile. Prima di lui in Italia c’erano stati altri sportivi non bianchi – per esempio i fratelli Vassallo calciatori, il ciclista Giovanni Mazzola, il pugile Leone Jacovacci – ma sono stati rapidamente dimenticati, poi ci sono stati anche Fiona May e qualche altro, ma Balotelli è stato la prima figura nera davvero popolare nel mondo sportivo italiano, quindi si è trovato addosso tutte le discriminazioni, tutti gli appellativi denigratori, tutti gli stereotipi che hanno connotato anche l’esperienza degli atleti che l’hanno preceduto. Dopo di lui le cose sono un po’ cambiate. Ci sono stati altri episodi di razzismo, ma penso che nessun altro sportivo subisca quello che ha subito e così a lungo Balotelli".

Qual è stata la sua esperienza diretta con lo sport?

"Quando sono arrivata in Italia da piccola, mia madre mi ha incoraggiata a fare sport. Ho praticato per anni pallavolo, danza, nuoto. Poi però è venuta fuori la dicotomia fra corpo e mente, tipica dei contesti di immigrazione. Mia madre stessa mi ha spinta a lasciare lo sport e concentrarmi nello studio, perché il salto di classe è possibile, nella visione dei genitori immigrati, solo con l’intelletto, quindi appropriandosi di quella che è stata per secoli prerogativa degli uomini bianchi europei".

Che cosa servirebbe per avere più uguaglianza e meno disciminazioni?

"La riforma della cittadinanza. Solo così potremmo avere un trattamento diverso delle sportive e degli sportivi razzializzati. E poi cambierebbe l’immaginario e magari si smetterebbe di parlare di integrazione se un atleta nero vince alle Olimpiadi per l’Italia".