Venerdì 9 Agosto 2024
GIOVANNI BOGANI
Magazine

L’Italia a Locarno. La fabbrica, la solitudine: quanto buio in quella Luce

La prima pellicola del nostro Paese in gara al Festival è diretta da Luzi e Bellino. Protagonista Marianna Fontana: "Io, con rabbia, alla ricerca di un padre".

L’Italia a Locarno. La fabbrica, la solitudine: quanto buio in quella Luce

La prima pellicola del nostro Paese in gara al Festival è diretta da Luzi e Bellino. Protagonista Marianna Fontana: "Io, con rabbia, alla ricerca di un padre".

"Ho interpretato un personaggio che ha tanta rabbia. Che non ha la possibilità di uscire fuori dalla sua stanza. La fabbrica, il ferro, le pelli, l’odore, la sporcizia sono diventati i miei amici". Lo racconta così, Marianna Fontana, il cammino faticoso con cui si è appropriata del dolore del suo personaggio, in Luce, il film italiano presentato ieri in concorso al Locarno film festival. E per farlo, Marianna Fontana si è trovata a lavorare per mesi in una fabbrica, con un contratto di apprendistato, operaia fra le operaie.

Si chiama Luce il film diretto da Silvia Luzi (nata ad Ascoli 48 anni fa) e Luca Bellino (salernitano, 46 anni), documentaristi attenti e rigorosi qui al lavoro con un film di finzione, che si intreccia e si mescola ogni istante con il reale. Si chiama Luce, ma affonda nel buio. Racconta l’isolamento, la ricerca di dignità e affetto. Racconta due solitudini che si toccano. Si inizia in una giornata d’inverno in Campania. Un gruppo di persone, sfocate, davanti all’obiettivo di un fotografo che, fra ragazzini che corrono e fanno scoppiare petardi, cerca di ritrarre una bimba che festeggia la prima comunione. Poi lo sguardo del film si sposta su un volto, e non lo lascerà mai più.

Il volto è quello di Marianna Fontana. Che si allontana dalla festicciola, va verso la riva del mare, mette le mani nell’acqua. Ricorda. La sua prima comunione, l’ultima volta che vide suo padre. La vediamo, poi, lavorare in una fabbrica per il trattamento delle pelli, alla catena di montaggio, con altre operaie, un lavoro ripetitivo, disumanizzante. Una prigione. Da cui l’unica fuga possibile sembra il tentativo disperato di lanciare un messaggio nella bottiglia. Affidare a un drone un messaggio per il padre. Il drone oltrepassa un muro, riusciamo soltanto a immaginare che sia il muro di una prigione. E questo tentativo qualche effetto lo avrà. Il film usa quasi soltanto primi piani, del volto di Marianna Fontana. La luce è cupa, anche di giorno, il mondo fuori sembra non esistere. Tutto ciò che resta, tutto quello che è reale è la voce di un uomo – interpretata da Tommaso Ragno, solo in voce.

Marianna Fontana – 27 anni e già due film importanti come Indivisibili di Edoardo De Angelis, in coppia con la sorella gemella, e Capri-Revolution di Mario Martone – è stata scelta dai due registi senza far provini. Ma la preparazione è stata assolutamente fuori dal comune. "Molto prima del film, mi sono trasferita nel paese in cui il film è ambientato. E tre mesi prima del ciak ho iniziato a lavorare in fabbrica, con la sveglia ogni mattina alle sei". Per mesi, Marianna ha lavorato davvero nella fabbrica di pellami che vediamo nel film, con un contratto di apprendistato. E non ha fatto sapere alle altre operaie di essere attrice. "Ho imparato i loro gesti, i loro ritmi, sono diventata una di loro".

L’altro personaggio, quello che affiora soltanto con la sua voce, conserva una ambiguità di fondo. "Non sappiamo se sia il padre oppure no", dicono gli stessi registi, "e in fondo non ha importanza. L’importante era raccontare due rabbie, due solitudini, due tumulti, due necessità di rivolta che si incontrano". Anche il carcere è qualcosa che viene solamente immaginato, un "di là" che non vediamo mai. Ma di cui sentiamo la lingua. "Con Tommaso, abbiamo costruito una lingua che nasce nel carcere: che mescola parole di pugliese, di siciliano, di calabrese, di napoletano. Una lingua che diventa la koinè del carcere". Una voce sconosciuta che può diventare l’unico filo che ti tiene attaccato alla vita.