Leo
Turrini
Non fate alla memoria di Mauro Forghieri il torto di ricordarlo “soltanto” per le grandi imprese della Ferrari. È vero, sotto la sua guida, tra il 1962 e il 1984, la Rossa ha trasformato la cronaca in leggenda. Vincendo in Formula 1 con personaggi da film come Niki Lauda e Gilles Villeneuve, nonché dominando per la disperazione di Henry Ford le “classiche” di durata, da Le Mans a Daytona (e anche su questo Hollywood ci ha fatto un film, con Chris Bale e Matt Damon).
No. Mauro Forghieri, spentosi ieri a 87 anni nella periferia della sua amatissima Modena, è stato ben più di un formidabile ingegnere da corsa, celebrato con commozione da Luca Cordero di Montezemolo ("Gli devo tantissimo") e da Piero Ferrari, figlio di Enzo ("Mio padre intuì subito il suo eccezionale talento").
A ben vedere, “Furia”, come lo chiamavano i meccanici ai box per certi scatti d’ira, ha rappresentato l’Italia migliore del Novecento. Non sto esagerando: era un’Italia in cui l’ascensore sociale funzionava ancora e il merito non era una banale etichetta da ministero, ma un obiettivo da tutti condiviso.
Figlio di Reclus, operaio della primissima Ferrari, capo partigiano nei giorni crudeli della guerra civile (nella sua fabbrica Ferrari gli permetteva di confezionare i chiodi che facevano saltare le gomme dei camion nazisti), Mauro si era laureato in ingegneria trasformando la passione di famiglia per la meccanica in cultura tecnologica. E siccome era bravo, nel 1962 il Drake gli aveva messo in mano, a lui non ancora ventisettenne!, l’intero reparto corse del Cavallino.
Provate ad immaginare una cosa del genere nel Bel Paese di oggi. Trovatemi un’azienda tricolore famosa nel mondo (la Ferrari già allora tale era) pronta nel 2022 ad affidarsi ad un “under 30“. Semplicemente perché è bravo e dunque non esistono gerarchie dettate dall’anagrafe o imposte dalla burocrazia.
Ecco, Forghieri ha incarnato tutto questo. È stato un volto dell’Italia del boom economico, quello sano e non malato alla radice. Amava i Beatles e i Rolling Stones, anche se poi si è perdutamente innamorato di Betta, ragazza di Monghidoro, conterranea di Gianni Morandi.
E ancora Forghieri, ingegnere creativo dagli alettoni al cambio trasversale, non si è mai seduto sugli allori. Quando a metà degli anni Ottanta lasciò le Rosse perché aveva capito che un’era si stava chiudendo, Lee Iacocca, il manager adorato da Ronald Reagan, lo volle a tutti i costi alla Lamborghini, allora controllata dalla Chrysler non ancora targata Fiat. Mauro andò e tra mille idee gli parve il caso di anticipare il futuro: nel 1990 ideò e realizzò un “van“ (allora li chiamavamo banalmente furgoni) spinto da batterie. Tutto elettrico, niente motore termico, zero inquinamento.
Quasi un tradimento, per l’ingegnere che aveva reso leggendario il potentissimo 12 cilindri della Ferrari, per tacere del turbo. Iacocca guardò, ammirò e infine disse: Mauro, tu sei troppo avanti, meglio aspettare…
È stato tutto vero, è andata proprio così. Forse anche perché dietro e dentro il Genio c’era un uomo buono. Quando nel 1976 in Giappone Niki Lauda, reduce dal rogo del Nurburgring, perse un mondiale ritirandosi per paura della pioggia, Forghieri gli si avvicinò e gli disse: Niki, dirò che si è rotta la macchina e mi prenderò io la colpa, la tua immagine sarà salva. Lauda, che era un gigante come Furia, rispose: no, devi dire la verità.
E rimasero amici per sempre.