Domenica 22 Dicembre 2024
Serena Votano
Libri

Paolo Di Paolo: “Dovremmo essere più capaci di raccontarci i reciproci ricordi”

Intervista all’autore di “Romanzo senza umani”, candidato alla sestina del Premio Strega 2024, un libro che sfida il lettore a interrogarsi sulla possibilità di una memoria condivisa

Paolo Di Paolo, 41 anni

Il protagonista di “Romanzo senza umani” di Paolo Di Paolo, edito da Feltrinelli e candidato alla sestina del Premio Strega 2024, è uno storico di professione che ha dedicato molti anni allo studio di un’apocalittica glaciazione che per sei mesi, nel 1573, investì l’Europa centrale e il lago di Costanza, nella Svizzera del nord. Nelle ultime pagine del libro Mauro Barbi, il protagonista, cerca di raccontare cosa il lago può comunicare oggi e per farlo cita Rabelais: “Nell’opera più famosa di questo grande scrittore francese del Cinquecento, c’è un momento in cui Pantagruele avverte il pericolo e si mette in fuga insieme ai suoi compagni. E mentre fugge, nel delirio, racconta che in certi paesi, in inverno, le parole gelano al freddo dell’aria, e non è possibile udirle... […] ora sarebbe da capire se, per un caso, non fosse qui il posto dove quelle parole disgelano”.

Più che un romanzo senza umani, si tratta di un libro in cui il protagonista è forse troppo umano. In piena crisi esistenziale, Mauro Barbi si lascia andare al disgelo di tutti quei pensieri, quelle parole che in passato non ha saputo pronunciare, e lo fa per ricongiungersi con alcuni aspetti di sé che teme di aver perso per sempre. Quello di Paolo Di Paolo, romano, classe 1983, è un romanzo per scoprire che nulla del passato è perduto: “Penso che per il lettore, che gli piaccia o meno questo libro, sia molto difficile che non sia portato a farsi una domanda su quello che si è lasciato in sospeso con gli altri, trascurato”.

L’intervista all’autore Paolo Di Paolo

Dalle prime pagine, complice l’avviso “Questo romanzo non è prodotto dall’intelligenza artificiale”, sembra erroneamente di avere a che fare con un distopico. Il libro si intitola “Romanzo senza umani”, eppure ho l’impressione che il protagonista di questa storia sia fin troppo umano. A cosa è dovuto il titolo?

“È vero che la confezione del romanzo – il titolo insieme a quella avvertenza – può creare una sorta di fraintendimento o comunque di opacità, è una cosa che avevo calcolato. Sapevo perfettamente che avrei dato la sensazione di un romanzo che riguarda il non umano o post-umano, però allo stesso tempo ho pensato di non rinunciare a quel titolo perché aveva a che fare con una sfida personale: avevo voglia di vedere se era possibile scrivere un romanzo senza figure umane, ero affascinato dalla dimensione di questo lago ghiacciato di cui avevo letto. Mi sono detto: ‘Se io scrivessi un libro in cui esiste solo il paesaggio naturale, cosa verrebbe fuori?’.”

E poi?

“Sapevo dall’inizio che sarebbe stato un progetto fallimentare. Puoi provare a raccontare un paesaggio privo di presenza umana, un paesaggio post-apocalittico, un paesaggio preistorico, però c’è comunque necessariamente un richiamo al dato umano, allo sguardo dell’uomo. E quando scrivo all’inizio del libro ‘in assenza di occhi umani’, se ci pensi è possibile? E quindi ho lasciato la provocazione del titolo per poi contraddirla nel romanzo stesso. In più si potrebbero dare due letture ulteriori del titolo. Da un lato il fatto che il personaggio vive una sua stagione di solitudine, e questa solitudine potrebbe essere assimilata a un romanzo senza altri umani nella sua vita. La solitudine è in fondo questo, no? Dall’altro lato, si capisce che è il personaggio stesso a scrivere un libro – a un certo punto si rivela essere una sorta di metanarrazione dove le parti sul Cinquecento sono scritte dal protagonista – e questo potrebbe dare un ulteriore senso al titolo.”

Il protagonista è lo storico Mauro Barbi e, in piena crisi esistenziale, finisce per comportarsi come se fosse lo storico di se stesso: recupera vecchie mail, ritrova vecchie amicizie, l’amore perduto… tutte quelle esperienze che non ha vissuto come avrebbe voluto, soprattutto si chiede: cosa ricordano gli altri di noi? Lei una risposta a questa domanda l’ha trovata?

“Ricordano quello che noi spesso ignoriamo di noi stessi. Quello che trattengono gli altri, del nostro essere o del nostro essere stati, molto spesso è diverso da ciò che ricordiamo di noi stessi. In questa sfasatura, tra la mia memoria di me e la memoria che gli altri hanno di me, ecco, c’è effettivamente una vertigine anche abbastanza abissale. Il personaggio del romanzo vive tutto questo in modo molto negativo, io invece credo che ci sia anche un elemento di positività che forse lui capisce solo verso la fine del libro. Non si può governare la memoria degli altri. Come può capitare nell’infanzia: c’è qualcuno che assiste ai nostri primi anni di vita e ricorda di noi cose che non ricordiamo – familiari o amici –, in qualche modo quelle persone sono depositarie della nostra memoria. Questo non può che arricchire i nostri ricordi, un po’ come le fotografie. Non possiamo imporre un ricordo però questa somma di memorie costruisce una dimensione molto più grande e molto più articolata della memoria di tutti.”

Sarebbe un bel regalo da farsi tra amici, familiari, colleghi. Regalarsi il ricordo che ognuno ha dell’altro…

“Dovremmo farlo quasi sistematicamente. Nelle relazioni, nelle amicizie… dovremmo essere più capaci di raccontarci i reciproci ricordi. La memoria è talmente multiforme, talmente evanescente che vive in modi completamente inafferrabili.”

Molti capitoli terminano senza un punto, la frase finale lascia il lettore in sospeso fino al capitolo successivo. Durante la lettura, mi è venuto in mente un suo articolo pubblicato su Limina Rivista, “In Italia non c’è più nessuno con cui parlare di letteratura”, in cui scrive: “Bisogna osare anche come lettori, non fidarsi solo del già visto e del già letto. Farsi sfidare”.

“Questa cosa la penso prima da lettore e poi da scrittore. Si tratta di una spezzatura che disorienta ma al tempo stesso porta il lettore ad andare avanti fino alla pagina successiva. Ecco, se questo meccanismo agisce producendo un interrogativo sulla struttura, sulle scelte stilistiche, questo è decisivo per me nell’orizzonte appunto della piena adesione a un testo.”

È una scelta che spiega ulteriormente il carattere del protagonista che fa i conti con alcuni aspetti della sua vita lasciati in sospeso. Fa parte del suo linguaggio, o non linguaggio.

“Non solo, il tempo che lui esplora, attraversa, immagina, fantastica, ricorda… è comunque un tempo spezzato, sospeso. A questo si aggiunge anche l’idea che quel Cinquecento lontano non può che essere un tempo spezzato dal presente, nel presente.”

E quali romanzi per lei sono stati una sfida durante la lettura?

“Io sono molto legato, anzi direi ossessionato, ad alcuni romanzi del cosiddetto periodo modernista, a libri che cambiano la struttura del romanzo. Penso a ‘Le onde’ di Virginia Woolf, oppure Joyce. Ma anche ‘La signora Dalloway’ e ‘Al faro’, sempre di Virginia Woolf, ma potrei dire anche ‘L’urlo e il furore’ di Faulkner o ‘La Recherche’ di Proust, ‘Il grande Gatsby’ di Fitzgerald: tutta quella galassia di libri che escono sostanzialmente negli anni Venti del secolo scorso e che cambiano un modo di congegnare, da un punto di vista del tessuto narrativo, il libro. Ricordo ancora la prima lettura de ‘La signora Dalloway’: andavo al liceo e forse non ho capito molte cose, ma mi ricordo proprio la sensazione di essere come assalito, avvolto e abbagliato da quelle scelte, da quelle soluzioni narrative e stilistiche. Mi rendo conto che ‘Romanzo senza umani’ risente moltissimo di quel tipo di sperimentazione. C’è un capitolo che giocosamente si chiama ‘Ciao Proust!’ che non è direttamente legato a questioni proustiane, in questo senso il lettore che non ha mai letto Proust non si trova impreparato, ma il protagonista si trova in una stanza d’albergo e pensa a un episodio erotico della sua vita. Il fatto stesso che lo sta ricordando come se fosse un recupero memoriale di natura proustiana rivela che c’è un legame non esplicito a quel tipo di letteratura. Ecco, è questa la galassia di libri che mi hanno formato come lettore e che in qualche modo mi influenzano come scrittore.”

In un suo vecchio post su Facebook, invece, scriveva: “Penso che – nell’epoca di TripAdvisor – la vera sfida di un recensore sia – partendo dal presupposto di capirci qualcosa – non tanto stroncare (cosa facile e divertente) quanto argomentare, connettere, approfondire, cercare un orizzonte di senso prima che di giudizio”. Riflessione che, a distanza di un anno, continua. In una lettera pubblicata su Domani, ‘Non c’è scampo all’insoddisfazione da scrittori’ scrive: “Nel mucchio, diamo l’impressione di non avere più molto da dirci”. Cosa di un certo tipo di letteratura le manca?

“Non è tanto la letteratura in sé che può mancarmi, ma mi manca l’articolazione di un ragionamento che non sia schiacciato sul giudizio. Parlare di letteratura, o più in generale dell’impresa artistica, oggi mi riesce più difficile perché mi sembra che anche le persone più attrezzate siano piuttosto propense a chiudere le conversazioni o comunque a ridurre la sentenza a due poli: questa cosa è bellissima o questa cosa è orrenda, e nel mezzo stiamo desertificando l’affascinante possibilità di un dibattito. Dovremmo provare invece ad affrontare quell’opera – letteraria, artistica, cinematografica, qualunque forma d’espressione umana – ponendoci delle interrogazioni: quante domande mi ha smosso questo libro, quest’opera? Ciò che non mi ha convinto, cosa ha determinato in me? O perché mi lascia indifferente?”