
Partigiani e biciclette nel grande bozzetto di Giuseppe Zigaina (1924-2015) realizzato per il ciclo Biciclette. È. custodito nella sede nazionale dell’Anpi
Nel percorso scolastico di ognuno c’è un professore che ha lasciato il segno per i motivi più svariati. Certo, non ci sono tanti John Keating – il Robin Williams de L’Attimo Fuggente – dietro l’angolo. E nemmeno si trovano facilmente lo Spencer o l’Antolini de Il giovane Holden di Salinger. Ma non c’è bisogno di esempi necessariamente cinematografici o di classici letterari. Roberto Cotroneo torna con un libro che muove dalla ricerca (anche storiografica) su chi fosse realmente il suo professore di inglese al liceo e diventa uno spunto anche per ritrovarsi e ritrovare la sua città: Alessandria. La nebbia e il fuoco (Feltrinelli) è un libro teso tra due pensieri forti: la memoria e il tempo. Che si materializzano appunto nel fuoco e nella nebbia. E ci riportano anche agli anni della Resistenza.
Partiamo da Aldo, chi era?
"Era un professore di Alessandria che insegnava inglese. Quando l’ho conosciuto aveva una cinquantina d’anni. Un uomo coltissimo, spiritoso, ironico che ci dava volutamente del lei. Aveva un’idea dell’insegnamento fortemente maieutica. Non interrogava mai. E aveva il piacere di parlare di autori che amava. Non necessariamente inglesi, penso a esempio a Carlo Gadda. Per lui era un genio proprio anche per la sua incompiutezza".
Nel tornare a quegli anni prevale il fuoco sulla nebbia? O viceversa?
"Sono stato fedele a quegli anni o meglio credo di esserlo stato, anche se li percepisco ormai lontani. La lontananza però sta soprattutto in un’antropologia diversa delle persone che hanno abitato quel tempo. Un’antropologia diversa che viene fuori soprattutto nel modo di pensare alla cultura. Il concetto fondamentale allora era un antinarcisismo. L’idea che non vieni prima tu. Il racconto di te stesso non è determinante. Non si parla di sé, ma di concetti o di cose. Aldo non parla mai di sé, non racconta né cosa è stato né cosa è in quel momento".
Tanto che la sua biografia la ricostruisce lei in questo libro.
"Perché lui non ha bisogno di costruire una sua biografia come accade invece ora per darla poi in pasto. Il secondo concetto strettamente legato al primo è che non c’era nessuna retorica, nessuna propaganda".
Propaganda sembra una parola ancorata al passato. Anche se in questi tempi di guerra sta tornando di moda.
"Sì, ora non si usa più la parola propaganda, ma la parola marketing: noi dobbiamo sempre vendere qualcosa. Vendere prodotti, vendere una storia. Ed è diventata una tale ossessione che non riusciamo a fare un passo indietro e parlare di altri e di altro, se non di noi stessi".
E lei ha deciso di parlare di Aldo. Il passato del suo professore – che lei ignorava – si schiude per una pervicace ricerca che parte da una chiacchiera da città: aveva partecipato con i Gap a un’azione nella sua Alessandria.
"Quando scopro che era stato un capo partigiano, mi sorprendo perché oggi sarebbe stato uno che avrebbe raccontato se stesso e la propria vita. I nostri nonni che avevano fatto la guerra e con cui siamo cresciuti in casa, non raccontavano nulla. Evitavano di farlo, si chiudevano nel silenzio. Questo silenzio in Aldo l’ho visto".
Dicembre 1943 l’azione dei Gap (due o tre, non è mai stato accertato) avviene in piazza Biffi che ad Alessandria non esiste più. Doveva essere un’azione dimostrativa ma ci scappa il morto ed è un tenente colonnello. Per ricostruire cosa accadde ha spulciato gli archivi, anche quello di Giampaolo Pansa che è stato suo condirettore all’Espresso. Ma con cui non ha mai parlato di quell’azione partigiana per sapere se ci fosse Aldo che si faceva chiamare Comandante Poldo (dal Leopold Bloom dell’Ulisse di Joyce).
"Alessandria è una città omissiva, anziché raccontare episodi o cose per rivendicare un’identità, tutto viene nascosto. Non ha mai voluto fare i conti con il suo passato. La parte della resistenza che è stata fortissima non è mai stata raccontata. Come magari è accaduto nelle Langhe che non sono molto distanti. Non c’era gente che raccontava episodi di quella stagione. Umberto Eco quando scrive un famoso articolo sull’Espresso, nel 1964, su Alessandria, la sua città, e sugli alessandrini, ne analizza il carattere e dice che non era mai stata fiera dei propri figli ma che non li aveva nemmeno perseguitati".
A questo punto viene in mente la canzone di Francesco Guccini Piccola città. E soprattutto la parte in cui Guccini canta "Nebbia e fumo non so darvi il profumo del ricordo che cambia in meglio" sembra quasi fatta apposta per il suo libro. Si è riappacificato con Alessandria?
"Ci conoscono soprattutto per Umberto Eco e Gianni Rivera. Una città sonnolenta, ma dopo tantissimi anni che non ci vivevo più ho cominciato a vedere cose che non ero stato capace di vedere prima. E ho cercato di raccontare in questo libro il carattere della città. Sono fuggito molto da quel posto. Poi è arrivata la consapevolezza che devi andare a trovare nelle cose che pensavi negative un elemento forte".
In tutto questo è risultata determinante la volontà di andare a ricercare chi era Aldo: un prof quando l’ha conosciuto e prima ancora un capo partigiano quando l’ha ritrovato dopo le sue ricerche.
"La generazione di Aldo è andata a combattere da partigiani non per andare a cercare la bella morte. Molti di loro ci hanno rimesso la vita non perché volevano andare in guerra, ma perché non c’erano altre possibilità. Facevano qualcosa che eticamente era fondamentale. Non avevano la vocazione a combattere, ma avevano invece una vocazione etica. E forse spiega anche il silenzio e il senso della misura, proprio di questa terra, che quelli come Aldo hanno tenuto dopo la guerra".
Questo libro è la lettera che non ha mai completato per Aldo?
"Sì, è proprio quella lettera che non ho finito di scrivere. Ci ho pensato a cosa avrebbe pensato Aldo leggendo questo libro. E poi l’ho scritto per chiudere quella lettera rimasta in sospeso per troppi anni".