Roma, 8 gennaio 2025 – La follia alberga nell’essere umano. Gli orrori ancestrali bussano in un costante ritmo tribale. Rifuggiamo e ricerchiamo la mostruosità, atterriti e attratti. E così, nel periodo più horror dell’anno, Neri Pozza pubblica l’ultimo thriller di Paola Barbato: La torre d’avorio. Barbato, 53 anni, è scrittrice e sceneggiatrice di fumetti, in particolare Dylan Dog per la Sergio Bonelli Editore (dal 1999); al suo attivo una decina di libri.
Paola, può spiegarci il titolo?
"La torre d’avorio è stata utilizzata come metafora: una principessa rinchiusa, il femminile che bisogna proteggere. Per Mara, la protagonista, è una torre fatta di denti in cui si rischia di essere masticati. Mara, l’avvelenatrice, incontra Moira, Beatrice, Maria Grazia e Fiamma al Rems, una struttura sanitaria di detenzione".
È un libro sull’amicizia, donne autrici di reati e affette da malattie mentali.
"Penso che i legami più solidi si creino per condivisione di difficoltà: stesse malattie, drammi o traumi, al di là delle condizioni sociali. Per questo ho scelto che loro si conoscessero in una struttura detentiva, unite dalla definizione di “malattia mentale” derivata da un processo penale. È stato necessario un crimine per individuare la loro patologia, diverse forme criminali e mentali. Capiscono il reato, ma non si pentono. La bestia è sopita, ma non morta. Non è innata l’empatia né la comprensione delle proprie azioni, nel bene e nel male. Mara si punisce, perché sa razionalmente di aver sbagliato, ma non lo capisce intimamente. Cresciamo in un contesto di convenzioni in cui ci spiegano cos’è giusto. L’incapacità ad adattarci diventa colpa. E traspare l’invecchiamento dell’anima. Il vissuto trasuda dall’aspetto fisico. È come una persona bellissima che ha un cattivo odore. L’odore arriva prima".
E infatti l’olfatto è molto importante nel romanzo.
"Io sono molto olfattiva. Nelle relazioni amorose, sessuali, l’odore è importantissimo. Abbiamo molti finti odori, purtroppo, e abbiamo cancellato il nostro istinto, ma sarebbe utile riconoscere le persone dall’odore. E del resto, chi di noi non trova meraviglioso l’odore della pelle di un neonato?"
L’unico potere degno di nota è quello psicologico?
"Purtroppo sì. Sono spaventata dal gaslighting, cioè da quelle persone che riescono a condizionare ogni aspetto della tua vita. Un esempio: il nazismo. Venne convinta un’intera popolazione di una cosa assurda e sappiamo le conseguenze".
Sono interessanti anche i personaggi maschili: Luca, Jerry, Luigi, e soprattutto Anand, bizzarro e dolcissimo.
"Anand fa parte degli invisibili, non perché lavoratore straniero, ma in quanto corriere che consegna pacchi. Mi piaceva l’idea di rendere un invisibile il più possibile visibile, eroico, perché ci sono delle grandi storie dietro alla ripetizione di un gesto. Quanto agli altri, ho voluto che avessero un’evoluzione, variegati tanto quanto le donne".
Nei ringraziamenti nomina le cinque protagoniste, parti di lei.
"Moira è la mia parte aspirazionale: sicurissima di sé; Mara quella conflittuale con la maternità: mi chiedo sempre se io sia una buona madre. Il bisogno di controllo di Fiamma mi appartiene molto. Beatrice è il mio rifugiarmi nell’amore per chi non c’è più. Maria Grazia è la donna che non vuole spezzarsi, ma che si spezza per aver tenuto duro troppo a lungo. È il grande rischio che corro sempre io".
Che cos’è per lei la follia?
"È un gatto che ci cammina di fianco. Siamo talmente abituati che a volte non lo notiamo".
Che cosa vuole dire ai lettori e alle lettrici?
"Spero che abbandonino il pregiudizio. Nessuna di queste donne, sulla carta, ha qualcosa di buono da offrire. Hanno sbagliato, ma l’errore può essere anche uno solo. Tendiamo a perdonare troppo poco gli errori degli altri. Forse non è l’atteggiamento giusto, perché come cade uno, così cadiamo noi".