Mercoledì 18 Dicembre 2024
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Pablo Casacuberta: “La migliore forma di liberazione è mettere in discussione se stessi”

L’intervista all'autore uruguaiano che nel romanzo di formazione ‘Qui e ora’ mette in scena l’adolescenza e il bisogno di crescere

Pablo Casacuberta

Pablo Casacuberta

Milano, 15 maggio 2024 – ‘Qui e ora’ di Pablo Casacuberta (Polidoro Editore, 2023), tradotto da Massimiliano Bonatto, più che un romanzo di formazione è una storia di iniziazione, il ritratto di un adolescente alla ricerca di risposte sul futuro, desideroso d’amore e di indipendenza.

Pablo Casacuberta, 55 anni, è uno scrittore, regista e artista visivo uruguaiano. Ha pubblicato sette opere di narrativa e ha vinto tre volte il Premio nazionale di letteratura. Lunedì 13 maggio l’autore ha presentato il romanzo alla libreria Verso di Milano.

Di cosa parla ‘Qui e ora’

La società pretende dai giovani che sappiano chi vogliono diventare, che credano in se stessi, il diciassettenne Máximo però non ha alcuna certezza e sente il peso delle aspettative che gli altri hanno su di lui. Ha un fratello di nove anni, Ernesto, il figlio preferito dalla madre. Il padre li ha lasciati quando era molto piccolo, una misteriosa scomparsa che ha lasciato il vuoto nella sua vita.

Colleziona francobolli, è abbonato a “Conoscenza” e “Qui e ora” ed è proprio su una di queste riviste scientifiche e di cultura generale che s’imbatte in un trafiletto che sembra essere scritto proprio per lui: l’Hotel Samarcanda, albergo di livello internazionale, cerca un fattorino.

L’esperienza all’Hotel lo aiuterà a entrare a far parte del mondo degli adulti e a comprendere che riconoscere chi siamo “hic et nunc”, come i latini, è l’unica cosa importante.

L’intervista a Pablo Casacuberta

Lei è scrittore, regista e artista visivo, in che modo queste sue anime convivono e si influenzano tra di loro?

“Da un lato vivo tutte queste espressioni come se l’obiettivo fosse lo stesso. Se si dovesse definire qual è l’obiettivo e qual è l’opera artistica in due parole, quell’obiettivo sarebbe raccontare la persona che sta davanti all’opera artistica. Invitare lo spettatore a prestare attenzione alla circostanza, al fatto di essere vivo. Tutti i lavori che faccio ­- che si tratti di fotografia, film, romanzi - spingono lo spettatore a fermarsi per un momento nel mezzo di una vita reale, brutalizzante, in uno stato di impoverimento spirituale, e fare in modo che possa riconoscersi viva. Alcuni generi artistici influenzano altri generi. Penso che il mio lavoro visivo mi abbia influenzato molte volte, per esempio per scrivere ascolto musica e questo permette alla mia scrittura di avere anche una musicalità. E poi cerco di rappresentare una scena come se fossimo all’interno di un film. La mia letteratura è molto visiva.”

Il protagonista Máximo è alla ricerca di risposte sul futuro, come gli adolescenti e i giovani di oggi impegnati nelle proteste pro-Palestina, nella lotta al cambiamento climatico, nell’incertezza economica e lavorativa. Secondo lei è ancora possibile vivere “qui e ora”?

“Si tende a dare per scontato che, di fronte a questioni urgenti come il cambiamento climatico, ciò che dobbiamo dare siano risposte definitive e drastiche. E in questo clima di urgenza si trasmette generalmente l’idea che porre domande sia un cammino lento che non risolve i problemi. Mi spiego meglio: ai giovani è richiesto di essere sicuri di ciò che vogliono perseguire in termini di politiche pubbliche e tutti pretendono da loro la certezza, che sappiano cosa fare o cosa vogliono anche rispetto al loro futuro. Io ho 55 anni e non so assolutamente quale sia la mia identità. Personalmente non mi sento più libero se conosco la mia identità, mi sento più libero nell’essere chi sono nel momento in cui mi trovo adesso. E ciò che bisogna aspettarsi dai giovani è la volontà di chiedere, di conoscere e di imparare.”

Lei scrive: “Mi resi conto che Ernesto si stava affacciando all’abisso di quel mondo terribile che lo attendeva appena girato l’angolo, la temuta adolescenza. Un mattino avrebbe sentito quel vuoto, scoprendo che un giorno non gli basterà essere me stesso per fare contenti gli altri, ma dovrà essere gli altri, unirsi al coro”. Cosa avrebbe voluto dire Máximo per salvare Ernesto dalla “temuta adolescenza”?

“Avrebbe voluto dirgli che unirsi al coro non è quasi mai una forma di liberazione. La migliore forma di liberazione è mettere in discussione il coro. La sfida dell’adolescente è proprio quella di lasciar perdere le aspettative, di imparare a conoscere se stessi e vivere la vita senza pregiudizi ideologici.”

C’è qualcosa della sua adolescenza che condivide con Máximo?

“Poco. Ero un adolescente che leggeva molto e tra i miei coetanei non era un’attività molto popolare. Durante la mia prima adolescenza ho fatto lo sforzo di integrarmi e poi ho capito che non avrebbe funzionato. È stato a quel punto che ho scoperto che in quella transizione avrei potuto incontrare altre persone che stavano vivendo lo stesso tipo di solitudine e conflitto per aiutarci a vicenda a conoscersi meglio.”