Mattia Gregori detto Bambino è uno squadrista, un giovane violento, e sarà poi un delatore senza scrupoli, ma è anche una persona tormentata dal pensiero di una madre mai conosciuta. Dietro la sua vicenda umana, scorre la storia di Trieste, dagli esordi del fascismo alla fine della guerra: il rogo al Narodni Dom, la repressione della minoranza slovena, l’entrata in guerra, l’amministrazione nazista e i quaranta giorni sotto i partigiani di Tito, la tragedia delle foibe.
Marco Balzano, Bambino (Einaudi) è un romanzo storico?
"Mi piace di più pensare d’essere autore di romanzi civili, politici. Amo prendere cornici storiche particolarmente forti per vedere come interagiscono tra loro sia l’essere umano che l’ambiente che lo circonda".
Boris Pahor diceva che gli italiani non sanno che cos’è stato il fascismo al confine orientale. Che ne pensa?
"Sottoscrivo pienamente, tanto che ho voluto scrivere due libri che indagano il fascismo di confine, prima Resto qui, ora Bambino. L’Alto Adige e la Venezia Giulia sono stati luoghi dove il fascismo ha esordito e ha rivelato le sue forme più violente e aggressive. Il fascismo di confine si muove da subito su base razzista, non c’è bisogno di aspettare le leggi razziali del 1938, peraltro annunciate proprio a Trieste, dove il fascismo mostra immediatamente la sua vocazione a calpestare determinati gruppi umani, in questo caso gli sloveni, e a porsi come braccio armato di una certa borghesia non illuminata".
Qual è stato il percorso che ha portato a Bambino?
"Avevo in mente questo romanzo da molti anni, ma non riuscivo a trovare una chiave d’ingresso che mi permettese di non restare schiacciato dalle vicissitudini storiche che a Trieste si succedono senza soluzione di continuità: il fascismo, l’occupazione nazista, la dittatura titina. Poi ho provato a vedere il mondo dalla parte sbagliata, con gli occhi di una camicia nera, non raccontando più le vittime, e ho trovato la chiave. Mi sono domandato quale idea, un personaggio così, si fa dell’amore, della morte, dell’amicizia, dei rapporti familiari, avendo un punto fermo: l’amore ferreo per la sua città. Trieste è una città incantevole, che dimostra, più di qualsiasi altra città europea, la possibilità di essere – in assenza di guerre e dittature – un laboratorio di convivenza, ospitando italiani, austriaci, ungheresi, slavi, ebrei, greci..."
La guerra in che modo incide sulla convivenza?
"In guerra si segnano i confini con il sangue degli altri e questo accade a Trieste in maniera più violenta che in qualsiasi altro luogo. La vicenda triestina fa immaginare come funzionano le cose anche su altri confini di guerra".
Come definirebbe il protagonista del romanzo?
"Bambino è un ragazzo che vive sulla motocicletta e che nasconde il dolore. Un uomo che arriva a fare del male agli altri pur di sopravvivere a sé stesso".
È una figura respingente, ma anche molto umana nel rapporto con i genitori...
"Il padre è un orologiaio che condivide col figlio l’amore indiscusso per la città ma che ha delle idee antifasciste e disprezza quello che fa il figlio e non ha paura di dirglielo. Però si rende conto che ogni volta che Mattia torna a casa, prima d’essere un poco di buono, un violento, un fascista, è appunto suo figlio".
È il suo bambino, come il soprannome che gli hanno dato.
"Sì, lo chiamano Bambino perché ha un viso fanciullesco, ma anche perché è immaturo e infantile come tutti i violenti".
Bambino ha un’ossessione per la madre mai conosciuta.
"La madre è una figura di perdizione, perché una persona che non si incarna mai in qualcosa di concreto può farti impazzire. Perciò Bambino resta vittima di ossessioni e cerca di riconoscerla nei volti che incontra, pur non avendola mai vista".
Lui è uno squadrista ma cerca sua madre fra le donne slovene. Non è una contraddizione?
"Quella del protagonista di questo libro è una questione privata. Lui arriva al fascismo, come tanti, senza sposarne le posizioni ideologiche, ma perché ha bisogno di un branco, di qualcuno da cui sentirsi protetto, qualcuno che gli dia forza e che lo aiuti a trovare sua madre. Bambino non è un fascista convinto e stravede per la madre del suo amico d’infanzia, che è slovena, e da lei impara la lingua, quindi il fatto che sua madre possa essere slovena non gli pone alcun problema".
La storia di Trieste è molto tormentata. In che modo ci è entrato dentro?
"È stato un percorso lungo e molto bello, mi hanno aiutato i migliori studiosi. A me interessa fare letteratura per parlare di argomenti o rimossi o silenziati, oppure, come in questo caso, divenuti appropriazione indebita della propaganda politica".
A che cosa si riferisce?
"Alle foibe, naturalmente. Mi pare evidente che questo tema, più che essere conosciuto o studiato, sia stato usato, fino all’istituzione del Giorno del ricordo, per contrapporlo al Giorno della memoria o alla Resistenza. Perciò ho voluto raccontare le foibe senza dare giudizi, permettendo a ciascuno di farsi una propria idea, e magari indurlo a leggere qualche libro di storia prima di prendere parola".
Ci sono stati dei modelli per il suo romanzo civile?
"Potrei fare i nomi di grandi maestri, ma non è detto che il loro esempio sia così calzante per il mio romanzo. Mi hanno invece molto colpito cose più piccole, come le testimonianze sul campo di concentramento jugoslavo di Borovnica. Ho cercato di scrivere avendo in mente il fatto che c’è bisogno di giustizia. Le foibe sono state questo: una reazione a vent’anni di soprusi indegni e crudeli. Ma noi abbiamo bisogno di giustizia, non di vendetta, che è la cosa più degradante possibile. L’autore che ha raccontato meglio tutto questo è Albert Camus, una presenza che mi accompagna nella vita e nella scrittura, anche se è irraggiungibile sul piano dei risultati letterari".
Lei si è calato nei panni del carnefice, dopo essersi identificato a lungo nelle vittime. È un percorso che dovremmo fare anche a livello collettivo?
"Forse sì, perché è vero che come collettività tendiamo a percepirci come vittime della storia. Ma il male è anche dentro di noi e dev’essere descritto e nominato, senza restare generico. Cambiare prospettiva può aiutare a mettere a fuoco che siamo meno innocenti, meno candidi di quel che crediamo".