È una storia di relazioni fra donne – amiche, sorelle, madri – ma anche un romanzo filiale, nella forma di una lunga lettera al padre appena morto; è un romanzo sulle radici, sull’identità, sulla diversità, ma anche un romanzo di formazione; è una narrazione che fa scoprire nessi e contrasti fra luoghi diversi, spaziando fra il Sud Italia, Tangeri e una sfavillante Londra, senza rinunciare a una sobria ma sostanziale critica (e autocritica) sociale. Tangerinn (edizioni e/o) è il romanzo d’esordio di Emanuela Anechoum, 33 anni, calabrese arrivata a Roma via Londra, lavoratrice dell’editoria. Oggi sarà a Pistoia al festival Pari e dispari: alle 18 alla libreria Lo Spazio, alle 21 al Teatro Bolognini con le letture di Anna Bonaiuto.
Emanuela, e per lei qual è il cuore di questo romanzo?
"Tangerinn non è autobiografico, però parte da una domanda personale che ha a che fare con i luoghi. Mio padre, come nel romanzo, è effettivamente marocchino: è arrivato negli anni ’80 a Reggio Calabria e lì ha fondato un’azienda, si è fatto una famiglia e ha potuto realizzarsi. Contemporaneamente Reggio è la città da cui io sono dovuta andare via per poter seguire la mia strada, come tutti i ragazzi della mia generazione. La coesistenza di queste due realtà parallele a distanza di una sola generazione mi ha sempre molto colpita e quindi sono partita dall’idea che i luoghi siano cose diverse a seconda della persona che li vive e a seconda della comunità che si riesce a creare attorno a sé".
Emanuela non è Mina, ma avete molto in comune. O no?
"La scrittura per me è un’occasione per percorrere strade non battute e quindi la caratteristica che più definisce l’enorme differenza che c’è fra me e Mina è il privilegio. Io sono nata in una famiglia borghese e i miei genitori mi hanno dato la possibilità di realizzare tutte le mie ambizioni. Mina non ha avuto niente di tutto questo, viene da un’altra classe sociale, è molto più isolata di quanto io non sia mai stata".
La nonna a un certo punto dice a Mina: “Diventa chi sei, quella è l’unica ambizione”. Chi è Mina?
"Mina non riesce a capire chi è perché non ha mai avuto la possibilità di sperimentarsi davvero. Ha una sorella, Aisha, che resta al paese, lavora nel bar di famiglia e fa volontariato coi migranti. Si confronta con lei da Londra. Nel raccontarle, mi sono interrogata su chi sarei potuta essere se avessi deciso di restare e di seguire la religione di mio padre, cosa che lui non mi ha mai chiesto di fare. Mina e Aisha mi hanno permesso di esplorare panorami alternativi".
Com’è stata calarsi in una classe sociale diversa?
"È stato un percorso di autocritica, ho dovuto guardare in faccia anche la mia ipocrisia. Il personaggio che mi somiglia di più non è Mina ma Liz, l’amica londinese, che è istruita, moderna, forte sui social, invidiata, una ragazza privilegiata. Delineare questo personaggio, anche nei lati più grotteschi, mi ha aiutato a comprendere certi scontri con mio padre, una persona con un passato di povertà. Certi ostacoli che a me parevano enormi, per lui erano inezie. Il privilegio cambia il modo in cui vedi, anche emotivamente, le situazioni".
Un personaggio maschile è Nazim, un ragazzo impegnato nei salvataggi in mare. Ma se ne mostrano anche certi risvolti narcisistici.
"Nazim è turco e potrebbe essere visto come un immigrato, ma viene da una famiglia ricca e ha studiato a Cambridge: nella sua scelta di imbarcarsi sulle navi delle Ong possono esserci la ribellione, il senso di colpa, o anche altro. Ho conosciuto persone imbarcate sulle navi e credo che ci sia sempre un elemento di ego, non tanto per narcisismo, ma perché essere capace di salvare vite può darti una carica di adrenalina di cui è difficile liberarsi. Può anche diventare una spilletta da esibire sui social, qualcosa da consumare e mostrare in una società in cui ciò che sembri è più importante di quello che fai nella realtà. A Londra lavoravo nell’editoria e c’erano tantissimi discorsi sull’inclusione, la diversity, l’accoglienza, ma in quelle stanze c’era solo gente bianca, non tanto per razzismo, ma per classismo. Per lavorare a Londra nell’editoria, coi salari che pagano, devi avere le spalle coperte".
Aisha, sorella di Mina, porta il velo, ma il tema religioso non è centrale. Perché?
"Non volevo che lo fosse. I personaggi musulmani del libro sono persone complesse, come tutti, non sono rappresentate dalla propria religione, hanno tantissimo altro da dire".
Tangerinn, per come affronta questo e altri temi, può essere definito un romanzo politico?
"Se viene letto così ne sono contenta, perché penso che scrivere sia sempre un atto politico, e oggi parlare di integrazione, di famiglie miste, dei vari tipi di immigrazione dai Sud del mondo ha a che fare con la politica. Il mio messaggio è che il punto fondamentale è creare attorno a sé una comunità che ti accetti e nella quale tu possa essere te stesso, nella condivisione delle vulnerabilità che tutti abbiamo. Credo che questo sia un concetto politico. E del resto il bar Tangerinn che dà il titolo al romanzo si ispira all’esperienza di Mimmo Lucano a Riace".