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Mauro Covacich, autore di Trilogia triestina. Svevo Joyce Saba (La nave di Teseo)
Nel programma “Io sono Friuli Venezia Giulia“, dispiegato da alcuni giorni alla libreria Mondadori di Piazza Duomo, una precisazione chiediamo a Mauro Covacich, protagonista dell’incontro di domani (ore 18.30). Tira di qua, tira di là, questa terra è italiana o slava o jugoslava? "Nella Venezia Giulia – risponde lo scrittore – si fondono due interi universi culturali: slavo-continentale che preme da nord-est (russi, tedeschi, praghesi), algido, mitteleuropeo, e quello latino-mediterraneo, levantino, che preme da sudovest".
L’unione europea? "Quando James Joyce arriva nel 1904 a Trieste, gli piace perché è un posto dove si parlano il tedesco, l’italiano, lo sloveno, il croato, il serbo, il greco e la lingua corrente: il triestino. E imparerà tutto". Ma che ci era venuto a fare? "Ci arriva insieme alla moglie Nora, vent’anni lei, due in più lui, professorucolo alla Berlitz School. Si ferma fino all’estate del 1915, quando lo scoppio della prima guerra mondiale lo induce a riparare a Zurigo. Ci tornerà nel ’20, ma non sarà più l’amore di prima: la Trieste annessa al Regno di Italia gli risulterà indigesta".
Riunendo i suoi monologhi teatrali in Trilogia triestina. Svevo Joyce Saba (La nave di Teseo), che domani presenta, configura un’unione comprensiva pure dell’Europa anglosassone? "Qui c’è la mia esperienza di lettura (non una lezione) di questi grandi del Novecento, che hanno reso immortale la mia città. E hanno sempre ispirato timore reverenziale a me, che ogni giorno diretto all’Università passavo davanti alla targa di Joyce. Finalmente, invecchiando, ho trovato il coraggio di ingaggiare, con i tre numi tutelari, un corpo a corpo".
D’accordo il dialettaccio transnazionale, che tiene unite le genti. Ma Joyce anche a Svevo deve insegnare l’inglese... "E diventano amici. Uniti da una grande stima. L’irlandese fiuta il genio di Svevo. Che ha visto riconosciuti i suoi straordinari meriti letterari solo poco prima della morte".
Li separa però la distanza sociale. "Sì, facoltoso uomo d’affari, il triestino deve imparare l’inglese perché la ditta che dirige sta aprendo una succursale nei pressi di Londra. Joyce, che fa fatica a sbarcare il lunario (pur bazzicando teatri, osterie, bordelli), si lamenta di non poter frequentare Svevo in società perché non ha gli abiti adatti". Grande artefice del successo di Svevo è comunque Eugenio Montale.
"Infatti nel dicembre 1925, sulla rivista L’esame, il suo Omaggio a Italo Svevo ne conclama la grandezza. E i due s’incontrano nel ‘26, a Milano, vicino alla Scala". Perché fin qui da Trieste? "Era in viaggio di piacere con la moglie. Italo Svevo (nome de plume di Aaron Hector Schmitz, così serenamente biculturale da non avere mai trovato contraddizione nell’essere cittadino austriaco e scrivere in italiano), all’età di sessantacinque anni sta visitando l’Italia..."
E a Montale, che per caso lo riconosce, che genere d’informazioni chiede? "Se per caso qualcuno della sua famiglia commercia in acquaragia. “Oh sì, mio padre“ risponde il poeta all’altro, che stava più a suo agio nelle questioni di lavoro. E i due scoprono che a unirli è il fornitore milanese di idrocarburi alla ditta triestina".
Il triestino che però ama più Milano è Saba. "Tanto da arrivare a dire: “Non posso dormire all’idea di essere obbligato a tornare a Trieste; preferirei ammalarmi di cancro a Milano e morire a Milano che trovarmi, sano di corpo, a Trieste. Trieste è, nel mio pensiero, la succursale dell’inferno“. Lo dice nella primavera del ‘46".
A Milano ha trovato lavoro? "Sì, gli è stata affidata una rubrica alla radio. Gli ascoltatori però non amano la sua voce, protestano, e la direzione interrompe bruscamente il programma. Ma ancora per diversi anni continuerà a fare la spola tra un piccolo ufficio della Mondadori, collaborazioni di poco conto, e la libreria antiquaria comprata con i soldi della zia a Trieste, quel “nero antro funesto“ dove ha scritto versi bellissimi".
Da citare a san Valentino? "Certo: “Trieste ha una scontrosa grazia. Se piace, è come un ragazzaccio aspro e vorace, con gli occhi azzurri e mani troppo grandi per regalare un fiore; come un amore con gelosia“, sapendo usare la rima più difficile".