Milano, 12 maggio 2024 – Donne che scelgono di diventare madri, donne che scelgono di non farlo. Donne che vorrebbero ma non possono, donne che già lo sono e non vorrebbero esserlo più. Donne che si fanno madri di se stesse, donne che scelgono di accudire anche chi non è sangue del proprio sangue. In quanti modi si può essere madri?
“È vero che esiste il destino, ma c’è anche il libero arbitrio, e consiste nel modo in cui prendiamo le cose che ci tocca vivere.”
Nel romanzo “La figlia unica” della scrittrice messicana Guadalupe Nettel (edito da La Nuova Frontiera), tradotto da Federica Niola, troviamo diverse declinazioni della maternità, in particolare attraverso tre personaggi che affrontano il tema in modo autentico: Laura, Alina e Doris.
Laura e Alina sono due amiche di lunga data, si sono conosciute in Francia e oggi vivono entrambe in Messico. Laura, voce narrante, non vuole avere figli, consapevole del fatto che diventare madre vuol dire annullare se stessa e rinunciare alla propria libertà. Per questo motivo un giorno si presenta nello studio del proprio ginecologo per chiedere di sottoporsi alla legatura delle tube. Ciò non vuol dire che sia un’anaffettiva per nulla in grado di prendersi cura degli altri, al contrario.
Laura e Alina pur essendo unite da una fortissima affinità su tanti aspetti della vita, non la pensano allo stesso modo in tema di maternità: Alina vuole e fa di tutto per avere un figlio con Aurelio, il suo compagno. Nonostante le difficoltà, la donna riesce a rimanere incinta di Inés ma al settimo mese di gravidanza i medici le comunicheranno che il cervello della bambina non si è sviluppato e quindi la stessa non sopravvivrà dopo la nascita. Dunque, cosa fare? Abortire o portare a termine la gravidanza temendo per una morte imprevedibile?
Il terzo personaggio arriva per caso: Doris e suo figlio Nicolás, un ragazzino di otto anni rimasto orfano di un padre violento, vivono nell’appartamento accanto a Laura. Nicolás ha forti crisi di rabbia e la donna soffre di depressione, non riesce a prendersi cura di lui, come se avesse perso l’istinto materno, o forse era perseveranza? Sono molti i dubbi che Guadalupe Nettel pone al lettore, attraverso una stile di scrittura colloquiale e confortante, racconta di come sia normale sbagliare, cadere, pentirsi.
La metafora animale segue il corso delle storie dei vari personaggi come specchio della condizione umana: un cuculo che sfrutta i nidi altrui con le proprie uova, delegando ai piccioni il compito di crescere i propri pulcini, di conseguenza la decisione dei piccioni di prendersi cura di un piccolo non loro. Dopotutto è una storia non molto diversa da quella che tante famiglie vivono. Sullo sfondo, città del Messico con i suoi femminicidi e le lotte femministe.
Guadalupe Nettel, classe 1973, è nata a Città del Messico ed è considerata una delle più importanti scrittrici latinoamericane dei nostri giorni. È autrice delle raccolte di racconti “Bestiario sentimentale” e “Petali e altri racconti scomodi”, e del romanzo “Il corpo in cui sono nata”, tutti pubblicati in Italia da La Nuova Frontiera.
“La figlia unica”, pubblicato in Italia nel 2020, è un romanzo che descrive con semplicità inaspettata gli aspetti meno convenzionali della maternità – la sensazione di rifiuto, la frustrazione, il rimpianto - per mostrare che ogni ci si può trasformare nella versione migliore di se stessi, risollevarsi per scoprire un nuovo modo di amare. L’autrice 51enne racconta il caos della vita e la maternità come un’esperienza collettiva, non importa di chi siano i figli, non si tratta di senso materno o paterno, ciò che conta è il legame che riusciamo a creare. La famiglia è un concetto molto più esteso di quello immaginiamo. Ciò che serve è cambiare la narrazione della maternità. Dunque, da dove cominciare?