Domenica 6 Ottobre 2024
MATTEO MASSI
Libri

Intuire e divagare, c’è del metodo in Vargas

Il commissario Adamsberg della scrittrice francese bestseller, un “antieroe eroico“ che ha un modo tutto suo di indagare

Intuire e divagare, c’è del metodo in Vargas

Intuire e divagare, c’è del metodo in Vargas

Questa volta scomoda Talleyrand, Charles Maurice (1754-1838), e le parole fatidiche le fa pronunciare a un tale Josselin de Chateubriand che è l’erede di quel Chateubriand, e un’attrazione a cielo aperto per chi arriva fino a Combourg (Bretagna) per vederlo. "Tutto quello che è eccessivo è insignificante". Così diceva il maestro della diplomazia che visse a cavallo fra Sette e Ottocento. Parole che si calano perfettamente su Jean-Baptiste Adamsberg. Fred Vargas rispolvera – dopo sei anni con Sulla pietra (Einaudi) – il suo antieroe eroico. Antieroe eroico, sembrerebbe una contraddizione in termini. Non se si fa i conti con il suddetto Adamsberg. Uno che non oppone argine al caso. Dedito alle fughe mentali e fisiche. Tutto quello che non ci si aspetterebbe in un commissario c’è in Adamsberg che però è infallibile. Nonostante non abbia un metodo. Lo spalatore di nuvole, così ribattezzato sin dall’inizio dalla sua creatrice, è in grado di immergersi nel suo cogitare che non è lineare.

E se manca la linearità, come si può risolvere un caso di omicidio? C’è invece un (anti)metodo Adamsberg in cui solo lui riesce a governare il disordine. Con la sensazione che all’apparenza si è perso nel suo zigzagare (perché non è riuscito a congiungere un puntino dietro l’altro), salvo poi ritrovarsi quando c’è da puntare l’indice – oltre ogni ragionevole dubbio – sul colpevole. "Tutto ha delle ramificazioni", dice Adamsberg poco dopo che l’erede di Chateubriand ha scomodato (anche per lui) le parole sacre di Talleyrand. Come si possa prendere Adamsberg nel suo disordine organizzato con il razionalismo del suo vice Danglard è a tratti incomprensibile. Ma entrambi sono empatici, giocano d’anticipo sulle rispettive reazioni: ognuno dei due sa sempre cosa pensa l’altro. E così Danglard, quando lo vede rovistare tra le pagine di un giornale alla ricerca di un trafiletto, sa già che Adamsberg s’impegnerà in quest’altra fuga verso la Bretagna, dove è stato ammazzato un guardiacaccia. E dove si agitano le paure del paese che arrivano da antiche leggende che chiamano in causa lo zoppo. Ogni volta che lo zoppo batte il bastone succede qualcosa. Il guardiacaccia è solo la prima vittima – come aveva intuito Adamsberg sin da subito – e ancora una volta il commissario dovrà fare i conti con un serial killer.

Ma tornando alle parole di Talleyrand: sono la bussola di Adamsberg per andare esattamente nella direzione opposta. Perché il commissario è un maestro della "ricerca della minuzia". Il dettaglio, il colpo d’occhio e poi il divagare. Le divagazioni che precedono le intuizioni. Adamsberg lavora per intuizione, non per deduzione. Il suo (anti)metodo non ha nulla di scientifico, non è un Sherlock Holmes post moderno, può considerarsi il suo un metodo laterale. Che si regge su delle sane abitudini. Per riflettere Adamsberg si concede delle camminate, spala le nuvole in quel momento, ma guarda anche le punte delle sue scarpe o come in quest’ultimo caso sceglie un rifugio. Adagiato sul dolmen – un tipo di tomba megalitica – riflette su chi c’è dietro quegli omicidi. Arriverà alla soluzione, ovviamente, passando per diverse vicissitudini, rischiando la propria vita. Ma confermando anche la sua salda leadership.

La squadra che si porta dietro con Violette Retancourt in prima fila (l’energica e gigantesca ispettrice), non cede mai allo sconforto né alla sfiducia nei confronti di questo commissario atipico. Che ha bisogno dei suoi tempi. E in quest’inguaribile elogio della lentezza di Adamsberg, con il suo fare analogico, c’è la capacità di comprendere questi tempi, in cui il passato, le credenze e la storia hanno ancora una significativa incidenza.