Roma, 29 luglio 2024 – L’idea la diede Zu Natale: "D’estate c’è siccità, ma durante l’inverno piove, però l’acqua va sprecata nel mare. Si dovrebbe fare un bacile". Zu Natale, nella Sicilia più povera degli anni Cinquanta, pensava ingenuamente a un grande catino, ma Danilo Dolci colse il suggerimento e si fece aiutare da ingegneri amici a concepire il progetto di una diga. La famosa diga sul fiume Jato, che fu una specie di rivoluzione, perché impegnò nella costruzione tutta la comunità e perché sottrasse alla mafia locale il potere di ricatto sull’accesso all’acqua. Il risultato fu, come disse Dolci quarant’anni dopo in un’intervista a Mao Valpiana per “Azione nonviolenta”, che "al posto di un gruppo di dominatori che imperversava su 70-80 mila persone che non avevano nessun potere perché erano divise, è subentrata la gente che ora è diventata il nuovo potere della zona".
Danilo Dolci, nato cento anni fa a Sezana in provincia di Trieste (oggi in Slovenia), si era fatto conoscere nel 1952 con uno sciopero della fame. Era da poco arrivato a Trappeto, in provincia di Palermo, uno dei luoghi più poveri e dimenticati d’Italia, con l’idea di dedicarsi al riscatto, oggi si direbbe all’empowerment, di un’umanità marginale, considerata superflua. Quando accorse al capezzale di Benedetto Barretta, un bambino con la pancia gonfia per la fame e non riuscì a salvarlo, nonostante la corsa in farmacia a cercare un po’ di latte, agì d’istinto: si stese sul letto e iniziò un digiuno, destinato a essere definitivo, fino alla morte, se i poteri pubblici non fossero intervenuti a tutela dei cittadini di Trappeto, privati dei diritti fondamentali. La Regione Sicilia quella volta intervenne, promettendo le fogne, una strada, l’acqua potabile nelle case; la lotta nonviolenta era vinta e Dolci divenne il personaggio che conosciamo: il "Gandhi italiano” come fu definito; il riformatore sociale ideatore di lotte mai viste prima, come lo “sciopero alla rovescia”, ma anche l’inchiesta sociale e la denuncia del potere mafioso.
Come racconta Giuseppe Barone nel suo libro "Danilo Dolci. Un rivoluzionario nonviolento” (Altreconomia 2024), Dolci è stato un personaggio di straordinaria complessità. Era un uomo carismatico, ma si dedicò al “metodo maieutico”, convinto che "il risveglio del mondo a una nuova vita non può maturare che nel risveglio delle singole coscienze impegnate a organizzarsi in strutture capaci di favorire la creatività personale e collettiva". Figlio di un ferroviere, precocemente antifascista, quasi laureato in architettura, arrivò in Sicilia nel 1951, perché, parole sue, "cominciavo a capire che un architetto avrebbe lavorato solo per i ricchi, per chi aveva i soldi, e non per chi non aveva né case né soldi; occorreva dunque fare un altro lavoro, prima dell’architettura e prima della cosiddetta urbanistica".
Dolci è stato un rivoluzionario, dice Barone: una rivoluzione per il tempo “scandalosa”. Dovette affrontare processi clamorosi. Il primo per il famoso sciopero alla rovescia. A Partinico c’era bisogno di una nuova strada, ma i poteri pubblici non se ne occupavano, e allora Dolci organizzò la gente del posto e così braccianti, contadini e pescatori si misero al lavoro per fare da sé. Ci fu una carica di polizia a sgomberare il cantiere e scattarono gli arresti. Ne nacque un caso nazionale e internazionale. Dolci e gli altri furono difesi da Piero Calamandrei: "Questo è un processo – disse nell’arringa – in cui si vorrebbe condannare gente onesta per il delitto di avere osservato la legge (…) per chi non lo sapesse ancora, la nostra Costituzione è già stata scritta da dieci anni". Dolci fu condannato a 50 giorni di carcere. Il lavoro era l’ossessione di Dolci, tanto che impiegò i proventi del premio Lenin – assegnato dall’Urss e che lui , non comunista, scelse di accettare nel 1958 – per creare un Centro studi per la piena occupazione, con l’idea di favorire nuove forme di sviluppo economico – dal basso – nella Sicilia occidentale.
L’altro processo clamoroso, a metà degli anni Sessanta, coinvolse Dolci con il suo collaboratore Franco Alasia. Avevano raccolto e reso pubbliche numerose testimonianze sui contatti fra esponenti mafiosi e tre potenti politici locali – il ministro Bernardo Mattarella, il senatore Girolamo Messeri, il sottosegretario Calogero Volpe. La reazione fu durissima e Dolci e Alasia furono condannati per diffamazione; quei legami, dissero i giudici, non c’erano, e anzi Mattarella "aveva osteggiato la mafia nel corso di tutta la sua carriera politica". Fu un rovescio evidente, ma almeno era stata avviata una stagione nuova, la lotta popolare contro la mafia e i suoi legami con la politica, e qualche decennio più tardi sarebbe stata ripresa da altri.
A Dolci si deve anche la prima radio libera italiana. Trasmise per 27 ore, prima che arrivassero i carabinieri, dal 25 marzo 1970, in epoca di monopolio pubblico radiotelevisivo: "Qui parlano i poveri cristi della Sicilia occidentale attraverso la radio della nuova resistenza" declamò Dolci; era un Sos, accentuato dai sibili di un messaggio in alfabeto Morse, in anni segnati dalle drammatiche conseguenze del terremoto nel Belice.
Dolci, morto a Trappeto nel ‘97, ha lasciato molti libri – da “Banditi a Partinico” a “Processo all’articolo 4”, ripubblicati da Sellerio, per citare un paio dei più noti – e la testimonianza di un impegno totale per la giustizia sociale, da raggiungere con l’azione collettiva, seguendo una via "insolita e singolarissima", come scrisse Norberto Bobbio: "È stata la via del non accettare la distinzione tra il predicare e l’agire, ma nel far risaltare la buona predica dalla buona azione, e del non lasciare ad altri la cura di provvedere, ma di cominciare a pagar di persona".