L’uomo si presentò a casa e chiese alla donna se quindici anni prima, sulla spiaggia, avesse visto anche dei bambini. "Avrei voluto dirgli", rispose lei, "che non sapevo niente e mandarlo via, ma per qualche ragione ho voluto rispondere. Come se l’avessi aspettata quella visita". La testimonianza, subito dopo, diventa quasi una confessione, perché quando si infrange un tabù, quando si dice a voce alta ciò che tutti sanno ma che viene taciuto per paura, si dice la verità sentendosi in colpa. Sì, c’erano dei bambini fra i tanti trucidati sulla spiaggia. Poi un’altra domanda, se il mare avesse restituito il corpo di qualche bambino, nei giorni o nei mesi seguenti. "Io non avevo più la forza di parlare... avrei voluto chiedergli a mia volta perché era venuto dopo tanti anni, ma le parole non mi sono uscite. A fatica, con un filo di voce, gli ho detto che no, non era ritornato a riva nessuno, e in quel momento mi sono accorta che aveva la camicia completamente zuppa di sudore".
Han Kang fra circa un mese sarà a Stoccolma a ricevere il Nobel per la letteratura, nel frattempo Adelphi ci consegna la traduzione (firmata da Lia Iovenitti) di un romanzo uscito in patria nel 2021, Non dico addio. Come Atti umani, romanzo del 2014 (per Adelphi nel 2017) dedicato alla rivolta popolare di Gwangju soffocata nel sangue nel 1980, anche Non dico addio affronta un tema scabroso per la cultura sudcoreana, una vicenda a lungo rimossa dalla coscienza collettiva, i “massacri di Jeju“, ossia lo sterminio di un numero ancora imprecisato di persone (forse trentamila, forse molte di più) attuato per fare terra bruciata attorno alla “guerriglia comunista“ che si nascondeva nell’isola. Siamo a cavallo fra 1948 e 1949, alla vigilia della fratricida “guerra di Corea“ fra il nord sostenuto da Urss e Cina e il sud alleato con gli Stati Uniti, la guerra che sancirà la spartizione provvisoria (ma ancora tale dopo 70 anni) della penisola.
Han Kang affronta questa storia affidandosi a una protagonista che le somiglia: una giornalista che si imbatte nella vicenda di Jeju attraverso un’amica, che a sua volta l’ha scoperta casualmente per poi trovarne una profonda traccia nella propria famiglia, fino a impegnarsi in una difficile, lacerante raccolta di documenti e testimonianze, a cominciare da quella della madre, che le si rivela, a quel punto, come una persona diversa, molto diversa da quella che credeva di conoscere (e che un po’ detestava).
Ma Non dico addio non è un libro di storia, anche se rievoca magistralmente i fatti; il romanzo è piuttosto un libro sulla memoria e sul dolore e su come filtrano e si trasmettono attraverso le generazioni. La storia vera e propria comincia quando In-seon chiede all’amica Gyeong-ha, la protagonista, di correre nella sua casa nell’isola di Jeju, a sud della penisola coreana, per salvare il pappagallino rimasto solo dopo che lei è stata ricoverata d’urgenza a Seul (in aereo) per una grave ferita a una mano.
Gyeong-ha parte e il suo viaggio fino alla remota casa dell’amica, nella tempesta e nella neve, è un romanzo nel romanzo: uno sforzo fisico, mentale e metaforico di grande potenza. Ma il romanzo ha un registro tutto suo, a metà fra sogno e realtà, coi ricordi che si intersecano col presente, le allucinazioni con la fisicità, e le figure di tre donne – le due amiche e la madre di In-seon, sopravvissuta con una sorella al massacro della famiglia – a restituire la tenacia, l’indistruttibile umanità di chi resiste agli orrori della storia, ma anche l’insuperabile dolore, il trauma che travalica le generazioni, l’incapacità dei genitori di dire tutto ai figli, sopraffatti da un tabù che aggiunge dolore al dolore.
Non c’è un’intenzione diretta di denuncia, in Non dire addio, piuttosto una riflessione profonda sulla fragile umanità delle persone travolte dalla storia, colpite da progetti di sostanziale genocidio. Han Kang esplora quest’umanità ferita, i suoi silenzi, i suoi gesti di coraggio rimasti sconosciuti e incompresi, e ci trasporta emotivamente in un lungo inverno – che è quello coreano, ma è anche il nostro. Quando un potere incontrollato e feroce prende a dominare la scena, sembra dirci l’autrice, non c’è salvezza, e resta solo il ricordo, cui possono aggrapparsi le generazioni future. Il finale del libro è irrisolto e ci lascia sospesi, con i dubbi e le angosce di chi assiste impotente a nuovi orrori, rinnovate tragedie.