Roma, 17 novembre 2024 – Francesca Cavallo: come ha iniziato a scrivere storie per bambini?
"È successo in modo casuale. All’inizio della mia carriera, dopo l’accademia di arte drammatica, insegnavo recitazione ai bambini. In quell’occasione mi sono resa conto di quanto il modo in cui si comunicava attraverso le storie con i bambini creasse uno scambio non soltanto con loro ma anche con le famiglie. In quell’esperienza c’era un grande potenziale di cambiamento proprio del mondo: raccontare storie ai bambini è l’unico tipo di comunicazione esistente che ti consente di comunicare a più generazioni anche molto distanti tra loro. È un tipo di comunicazione molto difficile quindi, ma anche estremamente potente, e questo è ciò che mi ha attirata verso questo tipo di scrittura".
Che favole le raccontavano da piccola?
“Mio padre inventava un sacco di fiabe che avevano se stesso come protagonista, quindi aveva sviluppato tutto un repertorio di sue avventure, alcune realistiche, altre inventate di sana pianta. Sicuramente mi hanno raccontato anche altre fiabe, però queste sono quelle che mi ricordo meglio di tutte”.
Hanno avuto qualche influenza nel modo in cui lei racconta le storie?
“Non ci ho mai pensato prima, stranamente questa domanda non me l'hanno mai fatta. Però credo di si. Spesso la letteratura per l'infanzia è una letteratura molto poetica, quasi lirica per alcuni libri. Io invece ho sempre mantenuto un elemento molto forte anche di divertimento nelle mie storie, ho conservato un gusto per la sorpresa e credo che questo in fondo sia legato alle storie di mio padre”.
E lei che storie racconterebbe ai suoi figli?
“Non ho figli ancora, però ho due nipotini. In ogni caso gli racconterei le storie che racconto a tutti gli altri bambini. Io ho un rapporto d'affetto molto profondo con i miei lettori, pensando a loro a volte mi commuovo. Le storie che racconto ai miei nipoti sono tendenzialmente le mie storie che ancora non sono state pubblicate. Sono degli ascoltatori molto attenti, e io sono molto fortunata ad averli come primi lettori perché spesso sono le loro reazioni che mi incoraggiano a continuare a lavorare".
Qual è stato l’innesco per il bestseller "Storie della buonanotte per bambine ribelli”?
"L’innesco è stata una riflessione sul libro che avrei voluto sul comodino quando io ero piccola. Io ho passato l’infanzia a identificarmi soprattutto con personaggi maschili nelle fiabe, e a un certo punto mi sono resa conto che mi era entrato in testa che se volevo vivere una vita d’avventura dovevo essere un maschio, perché i personaggi femminili non mi offrivano nulla in cui mi facesse piacere immaginarmi. Quel libro è quasi come una lettera alla Francesca bambina, per dirle che non dovevo essere diversa da come ero per poter vivere una vita d’avventura. Avere sottocchio gli esempi di tutte queste donne che sono riuscite a conquistare un proprio spazio nel mondo nonostante delle difficoltà era un modo di dire alla Francesca bambina: “loro sono diventati esempi per te, e tu potrai diventare esempio per qualcun altro“".
Mentre per il nuovo "Storie spaziali per maschi del futuro”?
"All’inizio è stata una domanda che veniva dai genitori che compravano "Bambine ribelli”. Quando uscì quel libro un po’ in tutto il mondo c’era questa domanda: e per i maschi? Io avevo la sensazione che avessimo parlato di maschi così tanto da aver esaurito le cose da dire. Finché a un certo punto ho pensato: ma se dovessi provare a riprodurre per i bambini maschi il gesto culturale che ho prodotto con Bambine ribelli per le femmine, cosa farei? Così mi sono resa conto che prima di tutto dovevo liberarmi dai miei pregiudizi".
Quali pregiudizi?
"Io non avevo nessun dubbio che anche le bambine vogliano essere leader, e che siamo noi a creare una cultura della subalternità, e poi la chiamiamo natura buttandola sulle bambine. Similmente, quando io penso ai maschi c’è sempre una parte di me che li immagina come naturalmente più aggressivi, naturalmente meno empatici. Così come creiamo una cultura della subalternità per le bambine, creiamo forse anche una cultura dell’apatia e della sopraffazione per i maschi e poi la chiamiamo natura. Quando diciamo che il patriarcato fa male anche agli uomini sembra che lo diciamo solo per dargli il contentino, per convincerli a stare un po’ peggio in modo che noi possiamo stare meglio. Ma invece non è così. Il potere economico, politico e religioso che è ancora saldamente nelle mani degli uomini, gli uomini lo stanno pagando con la loro vita. Cambiare i parametri dell’educazione maschile è un gesto di responsabilità molto forte nei confronti delle nuove generazioni".
Come mai sembra più difficile crescere un maschio adesso?
"Mi è stato chiesto da tante mamme di figli maschi, e non solo in Italia. Oggi sono cambiate in modo radicale le aspettative che abbiamo nei confronti degli uomini, però la loro educazione non è cambiata. Nelle storie che raccontiamo ai bambini purtroppo ci sono ancora tutta una serie di messaggi che sono legati alla necessità dell’eroismo, al fatto che loro sono più rudimentali da un punto di vista emotivo rispetto alle femmine. Questo produce una cultura molto dannosa. Dando agli uomini l’impressione che non ci sia niente da guardare nella loro vita emotiva, li priviamo degli strumenti per interloquirci in modo completo. Il risultato di questo è che tutta la parte della fragilità, del dolore, dell’insicurezza, della frustrazione, del dubbio, rimane per moltissimi uomini nell’ombra, ed è li che affonda le radici la violenza. Quindi, come abbiamo rivoluzionato l’educazione per le bambine per renderle più pronte ad andare alla conquista del mondo, così dobbiamo aiutare i bambini ad andare alla conquista di sè".
Come ha affrontato questo tema nei racconti di "Maschi del futuro”?
"Ho studiato per oltre due anni la formazione dell’identità maschile da un punto di vista antropologico, sociologico e psicologico, e mi sono fatta un’idea di quali erano gli aspetti cardine della formazione dell’identità maschile sui quali volevo offrire un punto di vista alternativo alle narrazioni esistenti. Su questo poi ho costruito le storie. La prima fiaba ad esempio aiuta i bambini a capire il peso delle aspettative familiari sulle spalle dei maschi, e crea un punto di rottura inedito in quanto il principe rifiuta la sua eredità. I principi delle fiabe classiche si sposano perché vogliono custodire l’integrità del patrimonio, non perché è il loro sogno o perché sono terribilmente innamorati. Altri aspetti sono la relazione con il padre e con la paternità, oppure l’idea di un amore romantico che non ha bisogno dell’eroismo, o la competizione con una donna: i bambini sono ancora subissati dall’idea che non ci sia niente di cui vergognarsi di più di perdere contro una femmina".
Come mai nessun editore italiano ha pubblicato il suo libro, mentre all'estero si?
“Questa è una domanda che andrebbe fatta agli editori. In tutta onestà, io pensavo che ci sarebbe stata un'asta per i diritti, tanta sarebbe stata la competizione degli editori. Sono rimasta abbastanza scioccata visto il mio storico, vista la continuità di questo libro con ‘Bambine ribelli’. Però mi rendo anche conto del fatto che io abito uno spazio tendenzialmente nuovo con il mio lavoro, che per gli editori tradizionali è molto difficile perché io non seguo i trend. Attraverso la mia scrittura e ricerca, cerco di creare degli spazi di ragionamento che ancora non esistono. Tanti editori italiani sicuramente non si sono sentiti di assumersi questo rischio. Così ho deciso di assumermelo io, auto-pubblicandolo”.
Parlando di questioni di genere. Lei ha seguito da vicino le campagne elettorali per le elezioni americane di quest'anno, in particolare quella di Donald Trump...
“Il dibattito sul genere è protagonista di questo ciclo elettorale in un modo mai visto prima nella storia. Il genere era stato al centro della campagna elettorale del 2016, con Hilary Clinton e il tema dell'emancipazione femminile, che lei ha cavalcato molto. La campagna elettorale di quest'anno io la vedo un po' come il negativo di quella. Kamala Harris non ha cavalcato affatto il tema di poter essere la prima donna presidente degli USA, mentre il fatto di essere un maschio ha avuto un ruolo importante nella campagna di Trump. Lui ha costruito la sua campagna rivolgendosi in modo particolare a tutti quei giovani uomini che sono stati cresciuti secondo i valori dell'eroismo, e poi sono diventati adulti in un mondo che invece è molto cambiato, in cui perfino le donne afroamericane si laureano più degli uomini bianchi. Questa frustrazione Trump è stato in grado di raccoglierla grazie a un tipo di linguaggio che fa leva su una maschilità arrogante, prepotente, che non si fa nessun problema su quello che deve dire, che non tiene minimamente in considerazione tutto l'avanzamento che c'è stato negli ultimi anni”.
Secondo lei, quanto è importante il linguaggio nel dare forma alle nostre identità, a come ci percepiamo e a come percepiamo la realtà intorno a noi?
“Credo che sia molto importante, ma che non sia l'unica dimensione. Credo che negli ultimi anni si sia data una eccessiva importanza al linguaggio, e troppa poca importanza alle connessioni con le altre persone. Il linguaggio è utile per comunicare, per dare forma a determinate situazioni, per rappresentare diverse storie e identità. Ma nel momento in cui diventa uno strumento di oppressione, a quel punto diventa inutile, dannoso addirittura. Purtroppo all'interno di un certo alveo della cultura progressista, il linguaggio è stato utilizzato non tanto come uno strumento di liberazione ma quasi come un martello da dare in testa a chi non ha il tuo stesso livello di consapevolezza su determinati temi. Così il linguaggio che dovrebbe essere utilizzato per liberare inizia a essere utilizzato per opprimere, e li si crea un cortocircuito pericoloso”.