Roma, 5 giugno 2024 – Neanche dieci mesi: tanto durò l’esperienza di Franz Kafka come impiegato delle Assicurazioni Generali. Era entrato, il 2 ottobre 1907, grazie a importanti raccomandazioni e con la vaga speranza di viaggiare per lavoro e lasciare così la sua Praga, per la quale provava crescente insofferenza; invece non viaggiò, restò anzi chiuso in ufficio nella filiale praghese della compagnia triestina.
Insomma, il posto non gli piaceva e oltretutto gli orari di lavoro troppo estesi (dalle 8 alle 12 e dalle 14 alle 18 per sei giorni su sette, con due settimane di ferie ogni due anni) gli impedivano di coltivare la sua vocazione di scrittore.
In aggiunta – e non per ultimo – scoprì nelle dinamiche d’ufficio sinistre analogie col clima intimidatorio del negozio paterno. Insomma, quel posto alle Generali, pur prestigioso e all’inizio anche promettente, non faceva per lui.
Kafka lasciò così l’impiego il 14 luglio 1908, inviando alla sede centrale di Trieste un improbabile certificato medico, nel quale si attestava che il giovane impiegato – aveva all’epoca 25 anni – soffriva di "nervosismo" e di "grande irritabilità cardiaca". A Trieste, la reazione degli uffici fu di comprensibile sorpresa, come si legge nella nota inserita nel fascicolo personale (in italiano) del “Dr. Franz Kafka“: "Esprimiamo il nostro stupore che lo stato di salute del suddetto, che dopo l’accurata visita del medico fiduciario effettuata nell’ottobre dell’anno scorso era stato raccomandato come assolutamente adatto, dopo così poco tempo sia cattivo a tal punto, da dover egli far seguire le sue immediate dimissioni".
Stupore legittimo, ma Kafka non prese la decisione d’impulso, tutt’altro. Era un impiegato diligente, degno della rinomata burocrazia asburgica, e lo dimostrò nel lavoro all’Istituto praghese per le assicurazioni contro gli infortuni sul lavoro, impiego che prese subito dopo l’addio alle Generali e che mantenne per il resto della sua breve vita, ottenendo anche avanzamenti di carriera, fino al precoce pensionamento (causa tubercolosi) nel 1922.
La verità è che Kafka, nei primi mesi alle Generali, chiarì a se stesso le proprie priorità esistenziali. Aveva cominciato con qualche ambizione di carriera, prefigurando – anche – un futuro professionale all’estero, approfittando delle ramificazioni della compagnia triestina e della sua continua espansione. Si era anche messo a studiare l’italiano, ipotizzando di passare qualche tempo nella sede centrale. La sua speranza, come scrisse a Hedwig Weiler, era "di stare un giorno su una sedia in qualche paese molto lontano, contemplando dalla finestra d’ufficio le piantagioni di canna da zucchero o qualche cimitero maomettano"; del resto, nella stessa lettera, anticipando la disillusione incombente aggiungeva: "L’ambito assicurativo mi interessa molto, ma al momento il mio lavoro è triste".
Nell’arco di pochi mesi la vera priorità si fece dunque strada: voleva scrivere e aveva bisogno di più tempo e di maggiore tranquillità. Nel nuovo ufficio si lavorava solo la mattina e Kafka per i pomeriggi liberi, come scrive Reiner Stach nella monumentale biografia di Kafka, appena tradotta dal Saggiatore (tre volumi, oltre 2200 pagine), era disposto a rinunciare a onori, denaro e carriera.
Era così determinato nel suo intento che per lasciare le Generali mobilitò un’importante conoscenza, Otto Pribram, direttore dell’Istituto praghese e padre di un amico e compagno di studi. E non solo: in vista dell’assunzione si sobbarcò ben quattro corsi di formazione, con orario serale, cui partecipò mantenendo il posto alle Generali. Non proprio un fannullone, insomma, semmai un aspirante scrittore deciso a dedicare più tempo possibile alla sua vocazione.
L’esperienza alle Generali, del resto, gli tornò utile anche al momento di scrivere le sue storie; il Kafka corrosivo critico delle burocrazie e dei sistemi di potere, attingeva anche a conoscenze acquisite in presa diretta. Nella celebre Lettera al padre, c’è un accenno ai dieci mesi trascorsi alle Generali, paragonati al clima vessatorio imposto dal genitore, importante commerciante praghese, ai propri dipendenti: "Alle Assicurazioni Generali – scrisse Franz a Hermann Kafka – io dichiarai al direttore, non del tutto veridicamente, ma neppure mentendo del tutto, che non tolleravo quel continuo imprecare, peraltro mai diretto a me; avevo infatti sviluppato una dolorosa sensibilità in proposito già nell’ambiente familiare".
A dire il vero alle Generali Kafka ebbe un capoufficio d’eccezione, Ernst Eisner, uomo di raffinata cultura, la cui presenza però non compensava il senso di soffocamento. In un testo del 1914 Kafka rievocò, con il suo tipico stile letterario, l’atmosfera d’ufficio, immaginando un colloquio fra il direttore di un’assicurazione e un candidato all’impiego: "Per essere sincero, le dirò subito: lei non mi piace. Abbiamo bisogno di dipendenti del tutto diversi. Ma in ogni caso, si lasci esaminare. Se ne vada ora, se ne vada. Implorare non serve a niente. Non sono autorizzato a distribuire favori. Lei è pronto a qualunque lavoro. Certo. Lo dicono tutti. Non è un particolare titolo di merito. Dimostra solo quanta poca stima lei abbia di se stesso".
Come ha scritto Mauro Covacich nel suo Kafka (La nave di Teseo): "Per Kafka scrivere non è conciliabile con una vita in famiglia, non è una passione da affiancare ai doveri borghesi, per non dire coniugali. La letteratura è lo stigma del deragliamento, della solitudine. Scrittori non si nasce né si diventa, la letteratura è semplicemente la missione per la quale di è deciso di prendere i voti".