Bologna, 29 settembre 2024 – Roberta, non vedevo l’ora di leggere questo ultimo romanzo, dopo il bel Dna chef, con cui qualche mese fa hai vinto, con gran merito, il Premio Chianti.
La gentile (Voland) prende spunto dalla vita della filantropa e pedagogista Alice Hallgarten, ricca ereditiera americana che, sposato il barone Loepoldo Franchetti, si trasferisce a inizio del ‘900 a Città di Castello dove, con il sostegno del marito, fonda una scuola per figli di contadini. Gli interventi pubblici (potremmo definirli “politici”) delle donne, partono spesso dall’istruzione. Forse perché l’insegnamento è un’emanazione di quelle attività di cura così tipicamente femminili. O forse perché sappiamo che la cultura, anzi, la mancanza di essa, è stata a lungo una zavorra, l’impedimento a una vita piena e a un lavoro che non è solo fonte di guadagno, ma partecipazione alla società di cui siamo parte.
Gli ostacoli di una donna nata nell’800 potevano essere corretti dall’istruzione, certo, ma soprattutto dai privilegi dell’agiatezza. Ai ricchi perdoniamo tutto, o quasi. Ai poveri, nulla. E Alice di denaro ne ha tanto, e anche una rete di preziose relazioni che le permetteranno di raggiungere gli scopi prefissati, come Maria Montessori, che conobbe a casa di Sibilla Aleramo. In seguito avvierà anche il Laboratorio Tela Umbra, come parte di un ampio progetto finalizzato al miglioramento della vita nelle campagne attraverso il lavoro qualificato.
Alice si imbatte in Ester, una bambina poco aggraziata e ignorante, povera per di più. Emanciparla dalla sua condizione è una sfida irrinunciabile.
In questo momento la narrativa italiana dedica particolare attenzione alle autrici, specialmente quando le protagoniste dei loro romanzi sono “donne che fanno cose”, ma uno dei tanti pregi del tuo romanzo è che insieme al racconto delle “cose fatte”, tu insisti sul “come”.
Fino al secondo dopoguerra i ceti privilegiati e il clero si raccomandavano di fornire ai poveri e alle donne una cultura limitata, in modo da non creare false aspettative, seguite da frustrazione e senso di rivolta. È quello che accade a Ester, a cui la ricca protettrice apre uno spiraglio su un mondo diverso, evoluto, libero. La beneficenza è sempre sinonimo di generosità? Oppure è anche senso di onnipotenza, manipolazione, imposizione della nostra visione del mondo.
La violenta meschinità dei genitori di Ester mi ha ricordato un passo del dramma Susn di Achternbusch. A un certo punto Susn dice al marito: “Sei come l’operaio che non permette alla moglie di giocare a carte, né le lascia guidare la macchina”. La miseria e le mortificazioni possono renderci meschini, incapaci di volere il bene degli altri, perfino se li abbiamo generati. L’animo umano è un rompicapo. Questa mia lettera è per ringraziarti di averne chiarito un buon pezzo.