Roma, 10 novembre 2024 – Nel nuovo romanzo di Chiara Gamberale, “Dimmi di te” (Einaudi), ricorre una riflessione: "Ero io che dovevo dartelo o eri tu che dovevi prendertelo, il permesso di rimanere te, nonostante noi? Il permesso di rimanere se stessi chi se lo dà?". Riflessione che cadenza il percorso della protagonista, una donna in un momento difficile della propria vita con una figlia piccola e tanti adulti a dirle cosa e come dovrebbe essere. Per uscire dalla condizione stagnante nella quale si ritrova, invece di omologarsi o di chiudersi in un frustrato egoismo compie un gesto di rottura, che si rivelerà salvifico: uscire da se stessa, mettersi in ascolto degli altri. "Siamo tutti nella stessa palude", dice Gamberale. "La cosa strabiliante è per me l’effetto che il libro sta avendo sui lettori e sulle lettrici: pensavo che il sentimento che ho raccontato riguardasse solo me, mentre in realtà è diffuso e condiviso".
Tema centrale, ancora una volta, le relazioni: mai giudicate, portatrici di conoscenza anche quando sono "patologie elette a sistema". Ciò che è urgente, per Gamberale, è dare voce alle "passioni di cui vorremmo fare a meno, ma ci ricordano chi siamo, i segreti che rodono le apparenze, i tranelli che ci gioca la nostra infanzia, le voglie, le paure, le alchimie di tutte le relazioni, le coazioni a ripetere, lo stupore, il corpo degli altri, quando annulla le distanze con il nostro (...). Lo scompiglio. Come farsi strada nella tempesta".
Chiara, perché definisce la protagonista una bambina marcia?
"Nei miei libri conio sempre delle definizioni che mi sono utili per mettere a fuoco personaggi e situazioni: questo è un altro modo per dire immaturi. Un frutto che non matura, marcisce. Si tratta di un tipo umano che mi interessa da sempre, in questo romanzo lo celebro nelle varie declinazioni. Io sono una bambina marcia e credo che, a un certo punto della vita, a prescindere dall’età o dal lavoro o dai figli, a tutti sembri di essere un po’ fuori sincrono".
Crescere, per come lo descrive nel libro può essere angosciante e alienante.
"Certo, infatti la protagonista si rifiuta di crescere in quel modo. Crescere non può essere un percorso obbligato bensì una soggettiva ricerca di equilibrio. Scrivendo di questo mi è tornata la voglia di vivere: ogni tanto si ha la sensazione di subire la propria esistenza, non di viverla".
La protagonista decide di incontrare e intervistare dopo tanti anni i miti della sua adolescenza, i coetanei del suo passato, dal grande amore alla bella della scuola, per capire cosa hanno scelto e come fanno a vivere.
"Lei gira agli altri le domande che bruciano, quelle difficili da fare a se stessi. Sta male, e quando si sta male si diventa egoisti: nel libro cerco di proporre un modo alternativo alla chiusura, che è andare verso gli altri, fare domande, superare l’isolamento che questa società un po’ ci impone. Io sono una paladina dell’interiorità, però a volte l’interorità ci consuma".
È una critica a un mondo che ci vuole perfetti e sempre in vetrina?
"Certo, credo che essere arrivata tardi ai social network sia stato un bene. La protagonista va oltre essi, addirittura spacca lo schermo dei social perché esce, esce, parla, dice io sto male. Da che mondo è mondo ci siamo sempre innamorati degli altri per le loro incertezze, se non le mettiamo più in gioco cosa ne sarà delle relazioni profonde? Questo libro è un canto di speranza e disperato sulla centralità delle relazioni".
Crescere è difficile ma è possibile?
"Per la protagonista è insopportabile come vivono alcune persone, ma anche questo è relativo: è più colpevole chi vive una vita falsa avendone consapevolezza o chi non se ne rende conto? Ma poi: falsa per chi? Il romanza lascia tante questioni aperte: quel personaggio si è salvato la vita o si è condannato a morte? E come decidiamo cosa sia giusto o sbagliato? Non sono abituata a giudicare, la mia volontà è comprendere".
A un certo punto muove una provocazione: a volte si scelgono persone che ci permettano di non crescere, di marcire. "Patologie elette a sistema". "Tutta la mia letteratura è incentrata su questo tema, credo di essere una delle poche scrittrici amate dagli uomini proprio perché non giudico. La mia narrazione si basa sull’osservazione. Penso anche che, se su miliardi di uomini al mondo una donna sceglie di stare con un persecutore – non sto parlando ovviamente dei casi estremi di malattia mentale e tragedia – insomma se una donna sceglie non la si può dire vittima della sua condizione. C’è qualcosa dentro di noi che ci fa scegliere persone che non ci facciano crescere o, peggio, che ci permettano di farci del male per interposta persona".
Tra tante relazioni c’è quella della protagonista con la figlia.
"Ero interessatissima a raccontare questo tipo di rapporto, un amore al di fuori da qualunque ideologia. Attraverso la maternità, come tramite altri tipi di relazioni, sperimentiamo sentimenti, paure. Per questo ritengo che il romanzo stia creando una corrente, un movimento forte di persone che si autorizzano a vicenda la complessità".
Come si indaga l’interiorità?
"Vivo quotidianamente un pensiero, che definirei ossessivo, sulla relazione con noi stessi e tra le persone. Le alchimie umane sono il mio campo d’indagine. Da ragazzina sono stata molto male, ho iniziato presto a sviluppare il desiderio di capire. Poi lo insegna Calvino, cos’è la leggerezza. La semplicità è necessaria per parlare di questi temi senza gravità né cadere in un trattato sociologico".
Cosa la guida mentre scrive?
"La prima regola della scrittura è recuperare una voce autentica, unica, quindi attenersi a quello che diceva Pasolini: se qualcosa non è stato necessario per te, non potrà esserlo per chi legge. Io scrivo perché intercetto l’urgenza di una storia, poi mi lancio una sfida stilistica: il diario in Per dieci minuti, il romanzo corale in Le luci nelle case degli altri, adesso la struttura romanzesca unita alle interviste. Questo lavoro, questo scrivere, è ciò che mi ha salvata la vita".