Domenica 22 Dicembre 2024
SILVIA ANTENUCCI
Libri

Andrea De Carlo: "La nonna tenuta nascosta e la mia anomala famiglia. Ora capisco il mio sradicamento"

Il nuovo libro “La geografia del danno“ è una ricognizione nella storia familiare dello scrittore "I miei avi erano sparsi in tre continenti. Le storie personali si intrecciano a quelle collettive" .

Un particolare del dipinto del pittore livornese. Angelo Tommasi (1858-1923) Gli emigranti. , del 1896. È un olio su tela di grandi dimensioni: 433 centimetri per 262

Un particolare del dipinto del pittore livornese. Angelo Tommasi (1858-1923) Gli emigranti. , del 1896. È un olio su tela di grandi dimensioni: 433 centimetri per 262

Il danno, la crepa parte da un punto ben preciso dell’albero: il tronco, una radice, un ramo che si spezza, persino uno snodo impercettibile sotto la corteccia dove scorre la linfa. Da lì si diffonde, attraversa gli strati e si mischia ai liquidi generando una diramazione geografica di se stesso. Nel caso di un albero genealogico, come ci racconta Andrea De Carlo nel nuovo romanzo La geografia del danno (La nave di Teseo), ha origine una geografia umana che necessariamente ne subisce le conseguenze: individuali, familiari, generazionali. "Si tratta della mia storia familiare, priva di elementi di fiction e di qualsiasi escamotage da romanziere", ha spiegato lo scrittore milanese. "Dopo ventidue romanzi, ho deciso di attenermi strettamente ai fatti, i pochi che conoscevo e quelli che sono riuscito a rimettere insieme per ricostruire, a distanza di un secolo, una storia oscura e complessa che riguarda la mia famiglia. A conferma che il danno non sta lì, da solo, come un fatto isolato: si trova nel punto d’intersezione di percorsi diversi dalle origini lontane".

Un paragrafo s’intitola “Da bambino mi rendevo conto che la mia famiglia era anomala“...

"A un certo punto gli antenati della mia famiglia per parte paterna erano in tre continenti diversi: Sud America, Nord Africa ed Europa. Oltre a questa mappatura geografica c’è anche una geografia generazionale, per cui da quel danno originario discendono esistenze che ne vivono le ripercussioni. La mia famiglia era anomala per tanti aspetti. I miei non erano una coppia conformista, erano due intellettuali molto critici nei confronti del loro paese, dei luoghi comuni. E poi c’era la nostra famiglia, o meglio: la sua assenza. In realtà avremmo avuto un nonno, ma l’abbiamo visto in vita nostra forse cinque volte, benché vivesse a Genova. E la nonna, Doralice Migliar, ci è stata nascosta: benché fosse viva, ci è stata dichiarata morta".

Da cui il tentativo di scoprire la verità.

"Quando sei ragazzo ti interessa tutt’altro che la tua famiglia, gli antenati, solo dopo cominci ad averne curiosità, a farti delle domande. Personalmente mi ci è voluto un sacco di tempo per arrivare a farlo".

A metà libro si accorge che non riuscirà mai ad arrivare a una conclusione certa. La verità può essere solo verosimile?

"Ci sono verità che sono sotto i nostri occhi, si tratta di analizzare le cose, di osservarle e, applicando un metodo scientifico, si può arrivare a delle conclusioni. Ma se uno cerca una verità riguardo a un fatto che si è verificato più di cento anni fa, i cui testimoni indiretti sono scomparsi, di cui non ci sono documentazioni, allora la verità è molto elusiva. Non avrai mai una risposta univoca, a distanza di oltre un secolo è praticamente impossibile trovarla".

Scrive anche che "con questa ricerca volevo capire le origini del mio sentirmi sempre uno sradicato".

"I miei erano tutt’altro che radicati. Mio padre era nato a Genova, cresciuto a Livorno e poi in Tunisia, è poi tornato in Italia. Mia madre veniva dal Piemonte, entrambi si sono stabiliti a Milano quando erano ventenni. Mio padre ha mantenuto per sempre una vocazione diciamo apolide, era uno che viaggiava tantissimo fra l’Europa e gli Stati Uniti, faceva parte del suo lavoro ma anche molto della sua natura. È una cosa che mi ha trasmesso, forse ancora prima di lui i miei bisnonni, i miei nonni, quelli che avevano attraversato gli oceani già molto prima che io ne sapessi qualcosa".

Al contempo, dalla famiglia non si scappa.

"Il Dna non è solo nei lineamenti o nel colore degli occhi ma anche nell’indole. È vero che c’è l’autodeterminazione, il contesto, tuttavia ognuno di noi ha in dotazione delle predisposizioni. Puoi credere siano difetti o doni dal cielo solo fintanto che non sai chi c’è stato prima di te".

Alla fine, chi è Doralice Migliar?

"Una ragazza che aveva dei sogni, nata in Cile da genitori immigrati in Cile dal Piemonte, la cui idea dell’Italia nacque in lei dai racconti fatti dai genitori. Aveva un fratello attore, un altro musicista, l’altro faceva il cantante, c’era un fermento artistico in famiglia che lei condivideva. Aveva fatto l’attrice in teatro e poi, incontrando mio nonno, si era ritrovata nei panni di una giovane signora borghese. Sicuramente si annoiava in una vita ordinata, era una donna che immagino irrequieta, piena di colori, di fantasia".

Nel libro abbondano riferimenti storici e descrizioni di foto d’epoca, dalla fine dell’800 alla seconda guerra mondiale.

"L’emigrazione dei miei bisnonni dal Piemonte al Cile e quella degli altri bisnonni dalla Sicilia alla Tunisia era avvenuta negli ultimi decenni dell’Ottocento, quando moltissimi italiani erano emigrati. Della migrazione in Sud America si parla poco, ancora meno di quella dalla Sicilia in Tunisia. In realtà furono tanti, le storie personali si intrecciarono in storie collettive".

Il danno è rappresentato materialmente da una cicatrice.

"Il danno originario coincide con la sparizione di mia nonna paterna dalla vita di mio padre, quindi dalla mia e da quella e di mia sorella, nel senso che poi mio padre e mia madre ci hanno nascosto l’esistenza di questa nonna finché lei non è morta. La scomparsa della nonna è il punto di partenza: l’ho voluta mettere sulla copertina del libro perché già lì c’è una ragazzina divertita, curiosa ma con uno sguardo che inquieta, inquietudine che dev’essere cresciuta col venire in Italia. Tra l’altro arrivò in Italia all’alba della prima guerra mondiale, tra sfaceli d’ogni genere".

Se fosse fiction, che finale avrebbe avuto la storia?

"Avrei magari inventato una soluzione, una prova, la scoperta di una lettera o un diario che testimoniasse e convalidasse ciò che ipotizzavo. Però non ho voluto farlo. Una storia vera è profondamente diversa da una fiction, quest’ultima confeziona delle risposte e un finale, non a caso se in una fiction c’è un finale insoddisfacente manda in malora tutta la narrazione".

Sta scrivendo in questo momento?

"Sto facendo una cosa che non avevo mai fatto, un podcast. Ha lo stesso titolo del libro ma non è un audiolibro: racconto la storia da un’angolazione leggermente diversa. Si trova su tutte le piattaforme, ne ho composto e suonato le musiche: una trasposizione musicale dello spirito di ogni episodio".