Giovedì 12 Dicembre 2024
MATTEO MASSI
Libri

Adriatico: un mare di rotte, incroci, canzoni

La natura, il vento, la storia, le religioni, la musica, le mappe: una millenaria civiltà delle acque da sfogliare come un atlante

Adriatico: un mare di rotte, incroci, canzoni

Unacarta geografica che mette al centro il Mare Adriatico

Il mare d’inverno, fin troppo facile. Raccontano (e lui conferma) che Enrico Ruggeri un giorno capitò a Marotta, lungomare incastonato tra Fano (a nord) e Senigallia (a sud), con un panorama ormai desolato e scrisse Il mare d’inverno che poi avrebbe cantato Loredana Berté. Il mare d’inverno però – e ormai da tempo – non è più solo un "film in bianco e nero davanti alla tv" (citazione).

Ci sono mappe, rotte e canzoni che, noncuranti dell’alternarsi delle stagioni (anche in assenza di caldo e sole, appunto), raccontano l’Adriatico. Ultima canzone, in ordine di tempo, l’omonima Adriatico tratta dal disco di Colombre che è un omaggio a Dino Buzzati (inventò lui Colombre inteso come animale marino per i suoi racconti) e ovviamente a Gabriel Garcia Marquez, visto che l’album in questione s’intitola Realismo magico in Adriatico. Se ci si fermasse un istante a pensare solo alle canzoni e lo sguardo non si posasse solo sul medio Adriatico, verrebbe in soccorso anche Franco Battiato con Scalo a Grado. Da Grado (o ancor meglio da Trieste) fino a Otranto, il mare che più di ogni altro è un incrocio di civiltà, è proprio l’Adriatico. Tre per l’esattezza: l’islamica in Albania, l’ortodossa lungo la costa montenegrina e l’occidentale da questa parte della sponda e dall’altra fino alle bocche di Cattaro.

Ora rotte, cartine, storie ed emozionanti divagazioni finiscono tutte in un libro che definire magnum (anche pensando al mare) è perfino quasi riduttivo. Si guarda il mare dal lato forse più scomodo, quando sembra essere disabitato, ma solo perché lo sguardo stringe troppo sulla spiaggia e non vede gli ombrelloni, senza allargarsi invece all’acqua. Cristiana Colli, curando Adriatico. Mare d’inverno (Artem) si è imbarcata (termine giusto, ma le vie per osservare l’Adriatico sono infinite: perché non provare con la ferrovia, in cui la salsedine arriva a depositarsi sul finestrino del treno che scorre sui binari che fiancheggiano il mare?) in un’avventura editoriale che vale la pena di sfogliare. Come si faceva un tempo con un atlante.

Nel momento storico in cui l’acqua scarseggia o impetuosa invece mette in emergenza le nostre città, riscoprire anche dal punto di vista idrografico (e non solo) il mare che sa essere meraviglioso perfino fuori stagione e anche pericoloso, oltre a essere interessante è fondamentale. Ci sono diversi interventi di scrittori, architetti, cartografi, ma anche di uomini di mare. Per cui il rapporto con l’acqua è qualcosa di ancestrale. Uno su tutti: Cino Ricci. E non è solo una questione di vela. Da Azzurra in Coppa America – quando la vela piombò nelle nostre case attraverso la tv – sono passati ormai 41 anni. Ricci nel suo intervento si concentra sulla bora. E quando leggi ciò che scrive, con una velata malinconia sembra di sentirlo come punge alla schiena, come (s)muove questo vento, come trascina via. Anche nella sua assenza, come in queste ultime poco rigide stagioni.

"La Bora, un vento catabatico – scrive Ricci – difficile da gestire che viene dalle montagne del Velebit, s’incunea tra le alture del Carso, arriva a Trieste, si sposa a Spalato e muore a Ragusa. Sul fronte italiano finisce al Conero, dopo Ancona non ha più forza". No, non è solo una questione di vela. Talvolta è perfino una questione epidermica, il brivido che corre. La sensazione sì del freddo, ma anche dei ricordi. Perché l’Adriatico è un incrocio di storie, di tradizioni, di riti, proprio come l’acqua dolce va incontro e s’incrocia con quella salata, in alcuni punti. Ma su tutti uno: la meraviglia del Delta del Po. Anche da un punto di vista faunistico: i fenicotteri rosa in quei luoghi dove si allevano anche le ostriche e quello spirito selvaggio che ne fanno un po’ la nostra Camargue.

Cosa unisce infine Chioggia a San Benedetto del Tronto, se non tragedie sportive che hanno segnato il nostro Paese? Di Chioggia sono i fratelli Aldo e Dino Ballarin, quelli del mitico Torino che si schiantò per sempre a Superga. Chioggia ha intitolato lo stadio a loro e altrettanto fece San Benedetto (1950), quello stadio ora demolito che fu archeologia sportiva e teatro di una tragedia: il rogo del 1981, in cui morirono due ragazze e ci furono oltre sessanta ustionati. L’ultimo stadio in cui giocò Pier Paolo Pasolini prima di morire (settembre 1975), lui che ha raccontato l’Adriatico alto e anche quello medio ne La lunga strada di sabbia o l’ha scelto come location per i suoi film: Maria Callas arrivò fino a Grado per Medea. Venezia-San Benedetto, nei giorni che avrebbero anticipato il Natale del 1970, fu anche l’ultima rotta del motopeschereccio Rodi che naufragò a tre miglia dalla foce del fiume Tronto. Una tragedia che provocò una rivolta popolare e portò dopo mesi alla sottoscrizione del primo contratto nazionale dei pescatori. C’è un coro che ogni domenica gli ultrà della Sambenedettese, la squadra di calcio della città, intonano dalla Curva: "Blu è il colore del mare, rosso il colore del vino". Storie di passioni che non muoiono. Proprio come l’Adriatico. Anche fuori stagione.