Franco Cardini
“Cercate la scienza dovunque si trovi, fino in Cina”. Questa, secondo un celebre hadith, sarebbe stata una viva raccomandazione del Profeta Muhammad ai suoi fedeli. Il mondo islamico si presenta al proscenio del secondo millennio della nostra era come estremamente frazionato sotto il profilo politico, contrariamente a come appariva nell’epoca appena successiva alla sua formazione: tale carattistica ha senza dubbio influito sul declinare della sua potenza militare e di espansione, mentre straordinario è stato invece il suo ruolo di mediazione, di originale rielaborazione e di sintesi sotto il profilo scientifico e culturale.
È stato grazie anche alla sua straordinaria capacità di sintetizzare e di metabolizzare le culture con le quali esso è venuto successivamente in contatto, dall’Arabia fino alle Colonne d’Ercole, al bacino dell’Indo e oltre, e dal Caucaso fino al Corno d’Africa, che l’Islam ha potuto sviluppare fra il VII e il XVI secolo una civiltà flessibile, policentrica e multiforme, entrando in vario modo in contatto anche con quelle circostanti: segnatamente con quella euromediteranea “latina”, che ha contratto con esso uno straordinario debito di riconoscenza: non solo perché è stato grazie alle culture musulmana e anche ebraica che essa ha potuto rientrare in contatto col patrimonio filosofico-scientifico ellenistico, che in gran parte aveva perduto, ma altresì perché per il tramite musulmano sono pervenuti in Europa molti tesori delle culture persiana, indiana e cinese, fino ad allora sconosciute nel mondo mediterraneo. Non si deve pensare al riguardo solo ai tre califfati di Baghdad, di Cordoba e del Cairo (quest’ultimo, in realtà, non califfato bensì “imamato” sciita), centri prestigiosi di studio e di ricerche con le loro madrasse e le loro immense biblioteche: si deve tenere presente altresì che esistevano molti principati musulmani che, pur prestando formale ossequio a uno di essi, vivevano in realtà in maniera autonoma ed erano a loro volta promotori e protettori di centri di elaborazione culturale, da Buchara e Samarcanda fino a Kairuan e Marrakesh.
In arabo erano stati tradotti i tesori della sapienza degli antichi greci; e, per quanto essi potessero essere accessibili anche attraverso versioni in greco – per le quali però al momento erano a disposizione degli occidentali opportunità ben minori di quelle che il mondo iberico metteva alla portata degli studiosi per l’arabo –, le versioni da quest’ultima lingua si rivelavano di gran lunga preferibili sia per l’eccellenza dei commenti che traduttori e studiosi arabi avevano redatto, sia per l’abbondanza di studi nuovi da essi intrapresi, sia infine perché ci si andava accorgendo che attraverso l’arabo l’Occidente poteva accedere – magari per via indiretta, riflessa – al sapere e ad alcune tecnologie proprie anche di paesi e civiltà ancora più lontani, dalla Persia all’India alla stessa Cina.
La letteratura musulmana di questo periodo fu soprattutto scientifica: trattati di storia, di geografia, di astronomia, di medicina, di architettura ne sono gli esempi più importanti. I geografi arabi del X-XI secolo conoscevano bene la terra e viaggiavano dalla Cina al Circolo polare artico all’Africa equatoriale trascrivendo le loro osservazioni in testi che restano classici nella storia delle esplorazioni. Pur nata come nomade, la cultura islamica aveva sapuito adattarsi alla sedentarietà e ai moduli della vita cittadina; le nuove esigenze, soprattutto agrarie, la indussero a sviluppare una straordinaria abilità nel campo dell’ingegneria idraulica; la richiesta di materiale scrittorio, legata a una religione nella quale la conoscenza del Corano era fondamentale, determinò l’introduzione della carta, che gli arabi mutuarono a metà dell’VIII secolo dalla Cina, mentre in Europa nel X secolo si cessava del tutto di coltivare il papiro e ci si affidava alla più costosa pergamena, la pelle di ovino conciata.