di Aristide Malnati
È sempre più grande l’allarme climatico: il riscaldamento globale è diventato la prima voce nei piani di intervento della comunità internazionale e dei governi di tutti (o quasi) i Paesi del globo: un’attenzione che era già presente nel mondo antico, a quelle latitudini dove la temperatura poteva, in estate, rasentare addirittura i 50 gradi. È recente uno studio di urbanistica antica che evidenzia come già durante l’Impero achemenide (persiano), attorno al 500 a. C., quando i sudditi di Dario e Serse dominavano tutto l’attuale Medio Oriente (riuscendo a conquistare persino l’Egitto con Cambise nel 525 a. C.), si escogitarono costruzioni particolari per contrastare le temperature bollenti.
In particolare nella città di Yazd, le cui eleganti vestigia (narrate con enfasi anche da Marco Polo che vi sostò nel 1272) ne ricordano ancora oggi i fasti di oltre tremila anni di storia (fu fondata attorno al 1000 a. C. dai Medi, popolo iranico precedente ai persiani), sono numerose le imponenti “torri del vento” (“badghir” in persiano). Una soluzione naturale per il problema della climatizzazione degli ambienti in climi torridi come quello che appunto dominava vaste aree dell’Antica Persia, in epoche in cui non esisteva l’energia elettrica e quindi non erano ancora stati inventati i condizionatori funzionanti ad elettricità.
Si trattava di una sorta di slanciati “grattacieli” con aperture (quasi delle feritoie) sui lati, atte a convogliare all’interno il vento fresco (che poteva essere anche molto forte per via del deserto intorno al centro urbano), e che poi, una volta che dalle fessure sul lato opposto rispetto a quelle di entrata usciva di nuovo negli spazi urbani, spingeva via le masse d’aria calda abbassando di molto la temperatura. Le torri attiravano il vento, selezionavano aria fresca e la rimettevano in circolo creando un microclima gradevole e costante. "Il tutto senza inquinamento. Sono strutture che non utilizzano elettricità, né materiali inquinanti", sottolinea Majid Oloumi, direttore del Giardino di Dowlat-Abad (a Yazd), dove svetta un badghir di 33 metri, ancora perfettamente integro e, ovviamente, in grado di svolgere la propria funzione originaria. Ma non è finita qui.
In queste zone così desertiche e in generale in tutto il vasto Impero persiano si riusciva grazie a forme architettoniche apposite a conservare il ghiaccio, trasportato in grossi blocchi dalle alte montagne più a nord: lo si sistemava negli “yakhchal”, strutture con una parte sotterranea e con una cupola esterna (simile ai nostri trulli), che mantenevano la temperatura interna costantemente sottozero.
Fiore all’occhiello degli ingegneri persiani era però il ramificato sistema di canalizzazione (i “qanat”), che permetteva di convogliare l’acqua di fiumi lontani nelle città: un’efficiente rete idrica, inventata ben prima degli acquedotti romani, che garantiva acqua a tutti e che era alla base dell’irrigazione dei campi, favorendo una copiosa produzione agricola. Un sistema che i persiani devono avere perfezionato una volta venuti in contatto con gli egizi: sono celebri i canali che portavano nella Valle del Nilo l’acqua del grande fiume, da cui dipese la sopravvivenza dei Faraoni e dei loro sudditi, ma anche, curiosamente, divertimento e tempo libero.
A Tebtynis, un sito dell’Oasi del Fayum (a 90 chilometri a sud-ovest del Cairo), fiorente tra il IV sec. a. C. e il IV sec. d. C., è stato trovata una rete di canaline per l’acqua che si sviluppava nel “déhors” di un “lounge bar“ dell’epoca (chiamato con termine greco “deipnetérion”: luogo per licenziosi banchetti e bevute) e che alimentava un rigoglioso giardino esterno. E simili impianti idrici sono stati rinvenuti anche in alcuni siti persiani dell’epoca.