Roma, 29 gennaio 2018 - «Non so se ci sia Dio. Non so se ci sia l’eternità. Quello che non credo è che l’uomo sia necessariamente al centro di tutto. Non credo all’eternità, ma piuttosto, come dicono molti scienziati, che esista una forma diversa del tempo». Si parla di massimi sistemi, ma anche di uova al tegamino con Laura Morante, una delle più carismatiche attrici italiane. Oggi Laura si racconta. Racconta di sé, di Carmelo Bene, di Nanni Moretti. Una carriera straordinaria, la sua. Iniziata con Carmelo Bene, a teatro, proseguita al cinema con padri nobili come Giuseppe e Bernardo Bertolucci. Icona di perfezione, di equilibrio, di desiderio nelle pellicole di Nanni Moretti, con cui anni dopo Sogni d’Oro e Bianca interpreterà La stanza del figlio che le è valso il David di Donatello come miglior attrice. In mezzo, il cinema di Salvatores, di Virzì, di Verdone, Muccino, di Amelio, di Avati. Cresciuta tra campagna e letteratura, libri e intelligenza, con una zia come Elsa Morante, la danza come primo amore, il teatro vissuto come un gioco. «Ho pensato di essere un’attrice solo dopo vent’anni che facevo questo mestiere», dice.
Ha sempre affrontato la vita a testa alta. Qualcosa le fa paura? «Il palcoscenico. Sembra impossibile, ma ogni sera, quando si apre il sipario, sono morta di paura».
Paura di che cosa? Di un pubblico ostile? «No. Di sbagliare, di non ricordare d’improvviso più niente: il crac. La paura di non essere all’altezza. Poi, sì, il pubblico ti condiziona: se è più o meno attento, se c’è quello che guarda il telefonino durante lo spettacolo…».
Ha più paura oggi di quando iniziò con Carmelo Bene? «La mia responsabilità era molto inferiore: i personaggi femminili contavano pochissimo, grazie alla simpatica misoginia di Carmelo».
Un genio. Ma non doveva essere facile lavorare con lui. «Si divertiva a terrorizzare gli attori, come i bambini quando tagliano la coda alle lucertole. Gli resistevo. Lui si infuriava, mi licenziava in continuazione; per poi mandarmi un telegramma con scritto ‘presentati puntuale domattina al teatro’…».
In un suo Riccardo III recitava nuda. Le creò problemi? «No. Ho un rapporto col corpo molto più disinvolto di quello che ho con la parola. Sono nata come ballerina: per una ballerina, il corpo è uno strumento».
Quando ha capito di non essere più una ballerina prestata al teatro e al cinema? «Diciamo che è stata come una dissolvenza incrociata: mentre un’immagine sfuma, l’altra prendeva consistenza».
Le manca la danza? «Moltissimo. Ma quello che è stato è stato».
Una donna forte. Proprio in questi mesi, le donne stanno affermando con forza i loro diritti. Che ne pensa? «Che c’è bisogno di una rivoluzione culturale. Soprattutto in Italia, dove gli anni del berlusconismo sono stati una sciagura per la donna, affondando l’Italia in una misoginia devastante».
Di che cosa c’è bisogno oggi? «Che la donna torni a essere soggetto e non oggetto. Mi chiedono: che effetto le fa l’idea d’invecchiare? Rispondo: se mi dice che, da vecchia, non potrò guardare un tramonto, o andare a un museo, o bere il caffè al bar, mi suicido. Ma se mi dice che non sono più appetibile come oggetto di desiderio, non è la fine del mondo».
Attualmente è in scena con Locandiera B&B insieme a sua figlia Eugenia Costantini. Che tipo di esperienza è? «È bello condividere il palco, e un po’ del tempo fuori, con la propria figlia. Che era stata inserita nel cast prima che il ruolo della locandiera venisse offerto a me. Agnese, l’altra mia figlia, è sempre in giro per l’Europa, studia musica, viaggia da un conservatorio all’altro».
Che tipo di madre è? Cerca più di ascoltare o di indirizzare? «Cerco semmai di interpretare. Quando vedo segnali di difficoltà o di scontentezza in Agnese o in Eugenia, cerco di capire».
Ha anche un figlio adottivo, Stepan. Quanti anni ha? «Undici e mezzo. Cresce bene, ma aspetto il periodo più difficile, che arriva sempre dopo».
I tre uomini della sua vita: due matrimoni e una lunga convivenza. Daniele Costantini, George Claisse, e da tredici anni Francesco Giammatteo. Con gli altri è rimasta in buoni rapporti. Come è possibile? «Finito l’amore, i miei rapporti se possibile migliorano. Non amo facilmente; quando le persone per me sono davvero importanti, tendo a preservare, non a rottamare. Se cambiano i ruoli, non importa. Contano le persone».
Oggi i rapporti umani sono molto cambiati, grazie a i social «Io non ho Facebook, sono rimasta alla Olivetti Lettera 22. E leggo solo libri di carta».
Che cosa ama leggere? «Le fiabe. Sono appassionata di fiabe: russe, orientali, italiane. Sono legate all’infanzia, e mi calmano, anche quelle crudeli».
Lei è cresciuta in una famiglia intellettuale e laica... «Non del tutto: una parte della famiglia è di origini ebraiche, c’era un rabbino fra i miei bisnonni. E mia madre era credente. Non ho fede, ma ho molto bisogno di spiritualità. I credenti ritengono di avere il monopolio della spiritualità; non è così».
Dove trova la sua dimensione spirituale? «Nell’arte. Nella creatività dell’uomo. Nella pittura. Nei silenzi di un museo. Almeno fino a quando non arriva un gruppo organizzato».