Lunedì 25 Novembre 2024
ANDREA CIONCI
Magazine

L’alfabeto Morse fu inventato per amore

Samuel non era uno scienziato ma un pittore: venne a sapere troppo tardi della morte della moglie. E rivoluzionò il sistema di comunicare

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di Andrea Cionci

“Ti tic tic.. ti ti ti ti.. ti tic ti…”, “what hath God wrought?“, “che cosa ha creato il Signore?”: è una frase tratta dal libro dei Numeri, nell’Antico Testamento, ed è il primo messaggio che l’umanità ha trasmesso a grande distanza grazie alla corrente elettrica. Era il 24 maggio 1844, e Samuel Morse inaugurava con questa frase biblica la prima linea telegrafica americana, di circa 50 km, fra Baltimora e Washington. Il 2 aprile scorso ricorrevano i 150 anni dalla morte di questo pioniere della comunicazione istantanea, una realtà talmente familiare per noi da renderci difficile immaginare un mondo privo di questa possibilità. Tale invenzione non si deve, però a uno scienziato, ma a un pittore.

Samuel Morse, nato nel 1791 a Boston, era un affermato ritrattista che nel 1825 affrontò una tragedia personale: mentre si trovava a Washington per dipingere un ritratto di Lafayette (ancor oggi conservato), ricevette una lettera da un messaggero a cavallo che gli annunciava la malattia della propria amata consorte e, mentre si apprestava a partire, il giorno seguente ne ricevette un’altra che ne comunicava il decesso.

Devastato dal dolore, il vedovo partì per l’Europa, un viaggio importante per la sua carriera di pittore. Soggiornò anche a Roma, dal 1830 al ’31, presso il palazzo Capilupi, dove una targa ancora ne ricorda il soggiorno. Fu nel viaggio di ritorno che la sua dolorosa macerazione per non aver saputo in tempo della malattia della moglie cominciò a fiorire in un’idea geniale.

Incontrò un esperto di elettromagnetismo e, da lì, ebbe l’idea di utilizzare impulsi elettrici per trasmettere informazioni. Accendendo e spegnendo un interruttore, si poteva dare un impulso corto e uno lungo: punto e linea, questo il massimo consentito, ma proprio grazie a una combinazione di punti e linee, Morse compose i numeri decimali. Fu il suo assistente Alfred Weil – col quale poi nacquero aspri contenziosi – a suggerirgli di assegnare questo codice alle lettere: nasceva l’alfabeto Morse.

Nel 1837 l’ormai ex pittore produsse un proprio telegrafo, in concorrenza con quello britannico inventato da Cook e Wheatstone; in breve il sistema si diffuse in tutti i continenti, formando una fitta rete. Con il tempo, l’uso degli isolatori in vetro o in ceramica per il filo elettrico di rame (non più in ferro) e il sistema duplex consentirono di aumentare la lunghezza delle tratte. Nacque anche una categoria di operatori telegrafisti specializzati, alcuni dei quali arrivavano a digitare con una cadenza di quasi 100 caratteri al minuto.

Tuttavia, il Morse, nella sua icastica essenzialità, si presta a una miriade di utilizzi e di mezzi diversi. Pensiamo al tamburellare “to to to tonnn“, tre punti e una linea della V di Victory di Radio Londra, con le trasmissioni degli Alleati durante la Seconda Guerra mondiale. Non solo suono, ma anche luce, come nelle comunicazioni luminose navali, realizzate con lanterne, o appositi lampeggiatori. Un sistema talmente utile che rimase lo standard per le comunicazioni marittime fino al 1999.

Forse la più straordinaria applicazione del Codice Morse si deve all’ammiraglio americano Jeremiah Denton che, prigioniero dei nordvietnamiti, nel 1966 fu costretto a dichiarare davanti alle telecamere che i prigionieri Usa venivano trattati bene. Mentre parlava, con rara capacità di concentrazione, sbattendo opportunamente le palpebre inviò il messaggio: T-O-R-T-U-R-E. Il Servigio segreto della Us Navy apprese così che i prigionieri americani venivano torturati. Insomma, non era un tic nervoso, ma un tic di altro genere.