Come ogni anno il 9 di novembre si ricorda la caduta del muro a Berlino, e la “Kristallnacht“, il grande pogrom nel III Reich, quando vennero date alle fiamme le sinagoghe e devastati i negozi degli ebrei, la Notte dei cristalli, delle vetrine andate in frantumi. Vengono pubblicate foto, e Yad Vashem, l’ente nazionale per la memoria della Shoah a Gerusalemme, ha diffuso nuove immagini inedite: perché la gente ricordi, la dimostrazione che non si poteva non sapere.
In ogni città, in ogni paese, strada per strada, il 9 novembre del ’38, si diede la caccia agli ebrei. E al pogrom presero parte anche normali cittadini. Nel mio quartiere a Berlino, una sinagoga si trovava nella Fasanenstrasse, e venne data alle fiamme. Ora è stata ricostruita. Si trova in pieno centro, come a Roma in una traversa di via Veneto, o a Milano in via Montenapoleone. Oggi è sorvegliata dalla polizia, come una libreria ebraica a poche centinaia di metri. L’antisemitismo è sempre presente nella Germania di oggi.
Si temono violenze da parte degli immigrati musulmani, ma anche dalle frange neonaziste. Fino a un recente passato un ebreo poteva passeggiare tranquillamente per Berlino. Oggi, si consiglia di non farsi riconoscere, di non portare la kippah. È un tragico paradosso. Per non essere accusati di discriminazione razziale, si evita spesso di registrare le aggressioni a ebrei come antisemitiche, e i giornali non pubblicano l’etnia degli aggressori. Normali atti di violenza. Nella Fasanenstrasse, a due passi dalla sinagoga si trova lo storico albergo Kempinski, ora diventato Bristol. Di recente, un cliente ha notato che nel cartoncino in camera con i prefissi di tutte le città del mondo, non si trovava più il prefisso di Israele. I migliori clienti dell’albergo sono i ricchi arabi. Una disattenzione, si è scusato il direttore dell’hotel.
La memoria svanisce. Dalla caduta del muro sono trascorsi appena 33 anni, eppure è difficile ricordare esattamente dove passasse. Una striscia di sampietrini è stata posta lungo il tracciato, ma si è dovuto ricorrere alle foto dei satelliti per non sbagliare. Nelle scuole è stato chiesto chi lo avesse eretto. Molti ragazzi hanno risposto: Hitler. Il Führer colpevole di tutto, una domanda facile. E, in fondo, una risposta non del tutto sbagliata. Berlino fu divisa a causa della sconfitta del III Reich.
Nel mio quartiere abitavano famiglie di ebrei borghesi, molti abbienti. E furono tra quelli che si illusero più a lungo. Erano inseriti nella società, alcuni avevano combattuto nella Grande Guerra con la divisa tedesca, anche da ufficiali, generali. Persero del tempo fatale. Dopo la notte dei cristalli, cominciò l’esodo. Molti non fecero in tempo. A lasciare la Germania furono in 280mila.
Davanti al portone di un palazzo nel mio quartiere, ho contato ben 14 pietre d’inciampo. Furono deportati e morirono nei lager, i membri di tre famiglie, padri, madri, bambini. Leggo i nomi, e mi chiedo chi fossero.
"Se non si va nei luoghi della memoria, io porto la memoria a domicilio", dice il giornalista americano Terry Swartzberg, 69 anni, da 27 a Monaco. Va di strada in strada con la sua “Erinnerungswerkstatt”, letteralmente l’officina dei ricordi, uno scatolone mobile con cassetti. Un’azione iniziata il primo dicembre del 2012, che non trova tutti d’accordo nella stessa comunità ebraica della capitale bavarese. "E io comprendo le ragioni di quanti non sono d’accordo", commenta. Meglio non provocare, vivere tranquilli. Terry porta la kippah: "Che possa essere pericoloso non mi preoccupa".
La polizia lo sorveglia pro forma, per la sua sicurezza, quando si sistema in una piazza o in un parco. Terry rispetta la legge e comunica alla polizia in anticipo ogni intervento. Qualche volta gli dicono di no, un divieto motivato da situazioni contingenti, dal traffico, dalla prudenza in alcuni quartieri.
Sai che cosa è avvenuto nel tuo palazzo?, chiede ai passanti che si avvicinano incuriositi. Vi abitavano ebrei? Che fine hanno fatto? Non chiede denunce che avrebbero poco senso quasi novant’anni dopo. Quando veniva deportata una famiglia ebrea, i beni, quadri, mobili, argenteria andavano all’asta tra i vicini, dopo che la Gestapo e i funzionari del partito si erano già impadroniti dei pezzi più pregiati. Magari il tappeto, o la statuetta di Meissen, ereditati dal nonno, appartenevano a qualcuno finito a Auschwitz.
Sei milioni di ebrei uccisi sono al di là della nostra immaginazione. Conoscere il nome di chi abitava in un recente passato nel nostro appartamento, o sullo stesso pianerottolo, finito in una camera a casa, ci colpisce e ci ferisce, come se lo avessimo conosciuto. E Terry ce lo presenta, o stimola a chiedere, a informarsi. Il palazzo al numero 1 della Robert Koch Strasse era una Judenhaus, un punto di raccolta per gli ebrei in attesa della deportazione. Da qui partirono in quaranta. Ma non ci sono pietre d’inciampo a ricordare i loro nomi.