Sabato 27 Luglio 2024
ANDREA MARTINI
Magazine

La Mostra che vince. Viva la femminilità libera della Frankenstein-donna. E degli autori coraggiosi

Il verdetto della giuria presieduta da Chazelle appare ineccepibile: esalta il genio di Lanthimos, che gioca tra humor e bianco e nero . E riconosce la forza espressiva della denuncia di Garrone e della Holland.

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La Mostra che vince Viva la femminilità libera della Frankenstein-donna E degli autori coraggiosi

Grazie Chazelle: Leoni felici! Quando il verdetto rispetta le attese a guadagnare è non solo il buon senso ma anche la Mostra, spesso offesa in passato da premiazioni incongrue. Povere creature! (Poor Things) è una commedia bizzarra, sofisticata, provocatrice, metà science-fiction metà allegoria filosofica, in grado di riunire tutte le platee possibili, come sa fare il cinema quando tiene a mente la sua vera natura. Yorgos Lanthimos non si risparmia: sa orchestrare da par suo una fiaba gotica vittoriana ammiccando al presente senza impigliarsi in moralità contemporanee. Emma Stone, fanciulla uscita dal laboratorio anatomico di un novello dottor Frankenstein alla scoperta di sé stessa, porta in dote una interpretazione straordinaria. Avrebbe meritato la coppa Volpi assegnata invece alla scialba Cailee Spaeny protagonista di Priscilla. Forse la sua assenza al Lido – dovuta allo sciopero degli attori hollywoodiani – è stata fatale.

Chissà a quanti anni fa risale un Leone in bianco e nero. Certo, Lanthimos ricorre a lenti anamorfiche distorsive e a colorazioni sintetiche ma la scelta di fondo, comune a un terzo almeno dei film in competizione, è significativa. Il miglior cinema d’autore cerca d’allontanarsi dalla piattezza delle serie per riconquistare la fedeltà degli spettatori di sala ricorrendo anche alle lontane radici del cinema. Sembra esaurita la sbornia per le innovazioni tecnologiche e in attesa di un deprecato ma sempre più possibile impiego dell’intelligenza artificiale il cinema si difende anche così.

In una Mostra in cui l’attualità è rimasta in ombra è significativo che siano presenti tra i film premiati due opere che in maniera formalmente diversa, se non opposta, guardano al problema dei rifugiati. Il Premio speciale della giuria assegnato a Zielona granica (Green Border) riconosce opportunamente l’equilibrio con cui Agnieszka Holland racconta la folle tragedia che si consuma giornalmente sul confine tra Polonia e Bielorussia. In parallelo il Leone d’argento alla regia dimostra che i giurati hanno compreso la forza espressiva di un racconto magico, antirealista, com’è quello con cui Matteo Garrone in Io Capitano abbraccia l’Africa da cui i suoi giovani protagonisti (Seydou Sarr premio Mastroianni) s’allontanano in cerca di fortuna come tanti loro coetanei nel mondo. Il suo Leone per la regia è quanto mai opportuno perché mette in risalto una qualità riconoscibile internazionalmente, elemento la cui assenza ha penalizzato il resto del cinema italiano in competizione. internazionalmente, elemento la cui assenza ha penalizzato il resto del cinema italiano in competizione. Adesso possiamo dirlo: sei film nazionali in concorso sono apparsi una scelta impropria. Segno di poco coraggio e di malinteso ecumenismo patriottico.

Il Leone d’argento-Gran Premio della Giuria assegnato a Ryusuke Hamaguchi riconosce innanzitutto un gigante dell’arte cinematografica (espressione storica della Mostra che al regista giapponese s’adatta alla perfezione) il cui talento ricorda gli Ozu e i Mizoguchi. Il male non esiste trasforma il racconto di un’afflizione ecologica in una drammatica parabola in cui il misticismo della natura non è soggetto di protesta ma ragione materiale di vita: il tocco di Hamaguchi è leggero ma cuore e nima dello spettatore sanguinano. La fortuna del cileno Larraín deve molto alla collaborazione di Guillermo Calderòn: il premio per la miglior sceneggiatura lo ricompensa ed esalta la scrittura di un film come El Conde (Pinochet vampiro) in cui la satira horror fa da memoria e monito.

Un’assegnazione di premi quanto mai appropriata (Cailee Spaeny a parte) è stata sigillata dalla coppa Volpi attribuita a Peter Sarsgaard simpatico, dimentico, precocemente demente, di Memory quinto film di Michael Franco, questa volta solido narratore. L’assenza delle star americane ha penalizzato la Mostra in misura minore del previsto. Sia perché la selezione pur non essendo eccelsa era accattivante, capace di sollecitare un interesse ampio e quindi anche popolare, sia perché i veri divi rispondono a una naturale sollecitazione di glamour che in loro assenza i fan rivolgono altrove. L’altra faccia della medaglia è offerta da un’assenza di coraggio. Se la Mostra dimentica di osare, di proporre novità anche rischiose perde la sua funzione primaria.