di Beatrice Bertuccioli
Dare la caccia ai fantasmi è un affare di famiglia. Così, se a dirigere Ghostbusters 1, nel 1984, e Ghostbusters 2, nel 1989, era stato Ivan Reitman, il terzo capitolo dell’amatissima saga è firmato da suo figlio Jason. E alla vecchia generazione di acchiappa-fantasmi, impersonati dai formidabili Dan Aykroyd, Bill Murray, Ernie Hudson e dallo scomparso Harold Ramis, nei panni di Egon Spengler, ne subentra una nuova, composta proprio dai nipoti di quest’ultimo personaggio e dai loro giovanissimi amici.
Sono loro i protagonisti di Ghostbusters: Legacy, al cinema dal 18 novembre, McKenna Grace e l’idolo delle ragazzine, seguitissimo interprete della serie Netflix Stranger Things, Finn Wolfhard. Insieme alla loro mamma single (Carrie Coon) vanno in uno sperduto paesino dell’Oklahoma, nella solitaria e fatiscente casa del nonno da poco morto, dove faranno sorprendenti scoperte. In collegamento da New York, Jason Reitman, 44 anni, otto film all’attivo tra cui Juno, pure presentato una decina d’anni fa a Roma, parla del suo film, in anteprima europea ad “Alice“, sezione autonoma e parallela alla Festa del Cinema di Roma. Il film è dedicato ad Harold Ramis, scomparso nel 2014.
Reitman, con quale stato d’animo ha raccolto il testimone da suo padre, che qui figura come produttore?
"Ghostbusters fa da sempre parte della mia vita. Avevo sei anni quando ero sul set di New York e vedevo mio padre dirigere Bill, Dan, Ernie che volevano, saltavano e nel cielo volteggiavano marshmallow giganti. Mi sentivo intimidito all’idea di fare un seguito di Ghostbusters perché pensavo che le persone volevano che riportassi in vita quel mondo. Non gli interessava tanto vedere un mio film".
Ma poi ha superato i timori e ha deciso. Qual è stata la prima reazione di suo padre?
"Ero molto nervoso, ma quando finalmente ho avuto il coraggio di parlargliene, la sua reazione è stata molto positiva. Gli ho raccontato la mia idea, l’immagine che avevo, quella di una famiglia, di una ragazzina dodicenne che in un fienile trova lo zaino protonico e lo fa ripartire. Quando gli ho accennato il finale, ha pianto. Di recente c’è stata la presentazione del film al Comic Con di New York, presenti tremila fan di Ghostbusters. Io e mio padre eravamo seduti vicini e ho visto che gli brillavano gli occhi, che era orgoglioso. Ho fatto questo film per mio padre, per mia figlia e, in un certo senso, per tutta la famiglia".
Non deludere i vecchi fan di Ghostbusters e nello stesso tempo ricreare e rinnovare la saga, conquistando anche i più giovani. Quanto è stato difficile?
"Abbiamo fatto un film sui nipoti di un Ghostbuster. È un film che parla di nostalgia e quindi i fantasmi non sono solo quelli fluttuanti nell’aria, ma sono anche fantasmi metaforici. Non volevamo fare solo un action-comedy-fantasy, ma donare profondità ai vari personaggi e al loro rapporto con i propri fantasmi. Volevamo fare un film che fosse al contempo nostalgico, che riprendesse delle tecniche degli anni Ottanta, ma usando anche le più recenti tecnologie, perché anche allora furono usati effetti speciali all’avanguardia".