Giovedì 29 Agosto 2024
MATTEO MASSI
Magazine

Quando Jeff Buckley incantò Dylan, trent’anni fa la svolta di ‘Grace’

Il 23 agosto 1994 usciva il suo unico disco, che ha lasciato un segno nella storia della musica contemporanea

Jeff Buckley

Jeff Buckley

Roma, 23 agosto 2024 – Per Bob Dylan è stato "uno dei più grandi compositori del decennio". Il decennio è quello dei novanta. E dire che con Dylan le cose all’inizio non andarono un granché bene. Jeff Buckley, figlio di Tim, aveva appena firmato un contratto con la Columbia ("l’ho fatto soltanto per un motivo, anzi per due, perché la Columbia è la casa discografica di Dylan e di Springsteen"), quando incontrò il menestrello di Duluth che gli disse: "Ragazzo, fai un buon disco".

Grace , pubblicato esattamente trent’anni fa (il 23 agosto 1994), era ancora in embrione. Ma in uno dei suoi tanti concerti nei club, sparsi negli Stati Uniti, Buckley cantò I want you imitando la voce nasale di Dylan. E poco dopo fece altrettanto, sempre emulando il Maestro, con Grace , la canzone che avrebbe dato il titolo al suo disco di debutto. Il management di Dylan era tra il pubblico e non la prese bene e riferì a Bob: "Il figlio di Tim si sta comportando in modo irrispettoso nei tuoi confronti".

L’infinita devozione di Jeff non fu compresa e lui si dovette scusare con Dylan stesso e gli scrisse una lettera: "Sei stato davvero gentile ad accogliermi nel tuo backstage (era successo qualche settimana prima dell’incidente diplomatico, ndr ) per incontrarti e finché vivrò non dimenticherò mai quello che mi hai detto. Un giorno capirai esattamente cosa intendo, da uomo a uomo". Quel giorno sarebbe arrivato qualche anno dopo, quando Grace , il disco, era un fatto bello che compiuto e Jeff Buckley nel frattempo (per chi non lo conosceva ancora) non veniva presentato più come solo ed esclusivamente il figlio di Tim. La sua vita tormentata è raccontata dal libro Jeff Buckley da Halleluiah a Last goodbye scritto dal suo manager Dave Lory (Castello edizioni).

Si può con un disco, un unico disco, entrare nella storia della musica? La storia di Jeff Buckley e di Grace dà una risposta affermativa alla domanda. Jeff aveva cercato sin da subito di scansare l’ingombrante spettro del padre. Del padre si portava dietro solo un cappello a cilindro che calzò per qualche foto e delle canzoni dell’illustre genitore salvava soltanto Once I was . Quando, all’inizio, gli chiedevano di cantare una canzone di Tim, lui se la prendeva oltremodo. Il padre l’aveva incrociato solo per qualche mese, poi più nulla. Un fantasma, appunto. E dopo qualche anno aveva deciso di stracciare anche l’assegno delle royalties che gli arrivava come erede.

Tim e Jeff erano due mondi lontanissimi, se non per la fine tragica e anticipata che li accomuna. A trent’anni Jeff (era il 29 maggio 1997) chiese di fermare il furgone in cui viaggiava per farsi una nuotata nel Wolf River, un affluente del Mississipi. Arrivò fino al ponte dei piloni dell’autostrada e iniziò a cantare Whole lotta love dei Led Zeppelin e scomparve nell’acqua. Bono (U2) parlando della sua morte e di quello che Jeff Buckley aveva rappresentato, disse: "Era una goccia pura in un oceano di rumore".

Il rumore, appunto. Tornando a quel decennio, evocato dallo stesso Dylan, c’era stata una cannibalizzazione da parte del grunge. E in quel 1994 Cobain se ne era andato sempre. Buckley, quando firmò per la Columbia, aveva solo un timore che il suo universo musicale in espansione fosse ricondotto a più umili consigli dagli ingranaggi dell’industria discografica. Così, a proposito di immagine votive, quando partì per il suo primo vero tour (era il 1994, con un disco-registrazione di uno dei suoi concerti più riusciti: Live at Sin-é ) appiccicò l’immagine di Cobain sul pullman che avrebbe accompagnato lui e la sua band nei luoghi del tour.

L’ascesa e la caduta (accidentale) di Buckley fu rapida. Così come la presa su una scena musicale, anche internazionale, che stava cercando una direzione. Il passaggio cruciale per la carriera di Buclkey (prima ancora delle due date all’Olympia di Parigi) avvenne quell’estate del 1994 in Inghilterra. Il primo settembre Buckley suonò al The Garage di Islington (il giorno prima aveva incassato dalla Sony music un assegno di duecentomila dollari, un anticipo per il disco). Al The Garage quella sera c’erano quasi tutti. Bernard Butler, bassista dei Suede, appoggiato al mixer. E perfino i Radiohead che cercavano invece una via per il secondo disco dopo l’uscita dell’esordio Pablo honey.

Colin Greenwood, bassista del gruppo di Oxford, ha ancora davanti gli occhi quello che accadde sul palco con Buckley e poco dopo in studio di registrazione. "Tornati in studio – raccontò Greenwood – abbiamo provato una versione acustica di Fake plastic trees . Thom si è seduto e l’ha suonata in tre take, per poi scoppiare in lacrime subito dopo. Ed è esattamente quello che abbiamo inserito nel disco". Buckley riuscì a essere derivativo, già al debutto, per molte band di allora. Uno dei più grandi compositori del decennio. Come quasi sempre gli succede, aveva (e ha) ragione Bob Dylan.