L’avevamo incontrata, ed era un’apparizione, un’epifania assoluta, in quel film di Kieslowski del 1991, La doppia vita di Veronica. Lì era una musicista polacca, che suonava con tale intensità da morirne. La ritrovammo, pochi fotogrammi dopo, nel ruolo di una ragazza francese, identica alla ragazza polacca. Il film diventava un enigma, un mistero sul destino, sulle somiglianze dell’anima e del volto, a distanza di migliaia di chilometri. Aveva 25 anni soltanto, e vinse il premio per la migliore interpretazione femminile a Cannes, ottenendo una consacrazione mondiale. La ritrovammo in un altro film di Kieslowski, Film rosso, ed era così bella, così perfetta, così intensa. Sembrava impossibile poter esprimere di più, senza neppure parlare.
Lei si chiamava, e si chiama, Irène Jacob. Ha fatto altri film, ha lavorato con maestri indiscussi del cinema: ha pubblicato un album musicale, ha scritto un libro autobiografico, Big Bang, nel quale fra le altre cose racconta di suo padre, astrofisico: lei è cresciuta fra protoni, acceleratori di particelle del Cern a Ginevra, e amici scienziati del padre, pazzerelli e capaci di domande assolutamente folli. "Si facevano tante domande, ma non sapevano nemmeno che cosa cercare esattamente. Cercavano di afferrare il mistero: ed è quello che amo, anche nel cinema". E nel frattempo, ha dato alla luce due figli, Paul e Samuel, entrambi promettenti attori.
La incontriamo, trent’anni dopo quei due film straordinari, a Locarno, dove ha ricevuto il Leopard Club Award. Fra pochi giorni, l’attrice sarà a Venezia, alla Mostra del cinema, con Why War (Perché la guerra) di Amos Gitai. "È un film che si chiede perché, da esseri umani, si continui a decidere di fare la guerra, anche se sappiamo che è così orribile e insensata", spiega Irène, nel salottino di un hotel fra i monti sopra Locarno. "La mia parte nasce dalle parole di Virginia Woolf e di Susan Sontag: occorre capire anche la fascinazione per la guerra".
E su Gitai, maestro del cinema israeliano, uomo di pace, racconta: "Più i tempi si facevano stretti, più eravamo obbligati a fare in fretta, più Amos diventava calmo, quasi immobile: e così facendo, riusciva a calmare tutti". Ha lavorato, nella sua carriera, con maestri dal talento enorme: Michelangelo Antonioni, Louis Malle, Theo Angelopoulos, Paul Schrader. Di Antonioni, con cui ha girato Al di là delle nuvole, ricorda: "Aveva da poco avuto un ictus, non parlava quasi, ma aveva un’anima libera, solo che era imprigionata in un corpo irrigidito. È stato commovente lavorare insieme: lui disegnava le scene con una matita e Wim Wenders, che Michelangelo aveva chiamato ad aiutarlo, le girava".
Di Kieslowski, il maestro che la ha consacrata, con La doppia vita di Veronica e con Film rosso, dice: "All’epoca esisteva ancora la Cortina di ferro, nei paesi dell’Est – Kieslowski era polacco – le cose non si dicevano apertamente. Così, lui ha sviluppato l’arte dell’allusione; ha fatto film che spingevano il pubblico a interpretare, a fare la loro parte. È questa la cosa straordinaria del suo cinema".
Sul lavoro dell’attore, dice: "Sei come un albero: ogni giorno ti modifichi, cerchi la luce, cambi la tua forma. È un lavoro nel quale non sei mai la stessa. E non è un lavoro che si fa da soli: lo sguardo del regista su di te cambia tutto. Del resto, anche le particelle infinitesimali cambiano la loro natura, a seconda che le si guardi oppure no". E se le chiedi come scelga i suoi progetti, i suoi film, risponde: "Scelgo con l’intuito. Cerco sempre ciò che mi sorprende, ciò che mi fa sentire viva". Riguardo al suo ruolo di madre, dice: "Adesso i miei ragazzi sono giovani adulti, possiamo discutere insieme, parlare di cinema. Sono una madre serena e felice".