Un microfono, un leggio. Una luce. Niente altro. E Toni Servillo che scava nella forza affabulatrice, nella furia rivelatrice di un testo. La letteratura per non morire. Per scoprire la complessità, le contraddizioni della vita. Per affondare nella parte oscura di noi stessi. Baudelaire, Dante, i Greci: Sofocle, Euripide, ma anche un filosofo come Platone. Da leggere, da rileggere, da far respirare dentro di sé. Da sentire risuonare nella voce di Servillo.
È al Teatro Argentina di Roma, fino al 19 gennaio, Tre modi per non morire. Un monologo, uno spettacolo teatrale che sta attraversando tutta Italia e che nasce dal testo di Giuseppe Montesano. Scrittore, traduttore, saggista, finalista al premio Strega, vincitore del premio Viareggio-Rèpaci, Montesano è l’autore di Lettori selvaggi, di Come diventare vivi e di Tre modi per non morire, edito da Bompiani. Il testo dal quale ha tratto la riduzione teatrale, portata in scena da un monumentale Toni Servillo.
Baudelaire, Dante, i Greci: abbiamo la tendenza a darli per scontati, a etichettarli come "classici". Montesano: da cosa nasce il suo desiderio di confrontarsi di nuovo con loro?
"Proprio da questo. Li chiamiamo “classici“, e abbiamo la tendenza a pensare: so già che cosa c’è in questo libro. E invece no. Si scoprono completamente diversi".
Baudelaire, di cui lei è grande conoscitore – ne ha curato anche una traduzione per Giunti – che cosa rivela di inatteso, rispetto all’immagine che ne abbiamo?
"Sfatiamo del tutto l’idea del poeta maledetto, di “genio e sregolatezza“. Pochi sanno che proprio Baudelaire ha scritto di come il poeta debba essere lucido: l’arte ha bisogno di lucidità, non di droghe. È la poesia l’unica droga interiore alla quale approdare".
Nello spettacolo portato in scena da Toni Servillo, che cosa dà Baudelaire a noi, spettatori del 2025?
"La ricchezza della contraddizione. Già il suo titolo più celebre, I fiori del male, porta in sé una contraddizione. Fiori e male non sono separabili, così come giorno e notte, vita e morte. Ci porta a non essere semplicistici. La vita non si può risolvere magicamente: grazie a Dio, è complessa".
Anche il Dante che lei riscopre è sorprendente. Il poeta di una cosmologia cristiana si rivela più complesso…
"Dante aveva una mente molto, molto aperta: lo abbiamo castigato facendone una specie di chierichetto. Era, invece, un visionario che prendeva suggestioni dall’Islam, i cui testi aveva conosciuto, dai poeti pagani che amava, uno dei quali – Virgilio – elegge a propria guida, ed era uno capace di mettere i papi all’inferno".
I Greci, infine. Nelle storie che raccontano ci sono incesti, brutalità, ferocia, rapporti fra uomini e dèi, fra fratelli e sorelle…
"I Greci sono pulp, o splatter, o horror, come vogliamo. E lo sono non per fare spettacolo fine a se stesso, ma perché sanno che gli esseri umani nascondono abissi oscuri. Dal teatro i Greci chiedevano salvezza, liberazione".
Come ha lavorato con Toni Servillo? Vi conoscete da molti anni, siete coetanei, cresciuti a pochi chilometri di distanza. Amici.
"Toni mi aveva confessato di sentirsi molto coinvolto da questi miei testi. E a questo punto del suo percorso di interprete, ha sentito di volersi mettere in gioco fino in fondo, a teatro. Da solo, senza nessun artificio scenico. E abbiamo iniziato a pensare insieme uno spettacolo “nudo“, in cui ci fosse solo Toni, in un corpo a corpo con le parole".
Che cosa porta la mise en scène teatrale al testo?
"L’accadere, in quel preciso momento. Andare a teatro significa essere disponibili all’ascolto, essere anche un po’ ingenui, abbandonarsi. Il teatro è mettere insieme emozione e conoscenza".
Lo spettacolo ci spinge a metterci in gioco?
"Certo: non si tratta di un gioco innocuo. Non lo è stato per me che lo ho scritto, non per Toni, e non lo è per lo spettatore: anche lui deve mettersi in gioco. Se no, tanto vale farsi una passeggiata in centro e un aperitivo".
In che modo questo testo ci indica dei "modi per non morire"?
"Perché ci spinge a non diventare stupidamente abitudinari, chiusi al mondo esterno, pieni di sicurezza, illudendoci di sapere tutto. Questo è il vero morire, diventare abitudinari e annoiati. Abbiamo bisogno dei classici perché abbiamo perso la consapevolezza che le cose vanno sempre guardate di nuovo, e ripensate. Siamo entrati in un’epoca troppo accelerata, nella quale non ripensiamo, non riguardiamo. È in pericolo anche la memoria: la affidiamo alla tecnologia, e perdiamo l’abitudine a lavorare con la nostra".