Roma, 24 dicembre 2024 – Quando la spiritualità diventa uno scatto per Instagram. Il simbolismo sacro del Buddhismo ha trovato una forma concreta che sarebbe molto piaciuta a Walt Disney e che ricorda il mondo dei ghiacci di Frozen. Il Tempio bianco si staglia vicino alla pianura del Mekong, un ininterrotto susseguirsi di risaie e di piantagioni di frutta tropicale nel nord della Thailandia, a 15 km dalla città storica di Chiang Rai: il suo bagliore nelle giornate più terse lancia intense luminescenze al visitatore o al fedele che si avvicina e gli comunica un’idea di candore e di purezza.
Era infatti questo il principale obiettivo di Chalermchai Kositpipat, l’archistar del sud est asiatico, già geniale autore di altre costruzioni fantasmagoriche, che nel 1997 ha completato la prima versione del grande santuario, diventato in pochi anni richiamo per migliaia di visitatori ogni anno. Un intrico di guglie e pennacchi, di tetti spioventi e cornicioni con fregi che ricordano vagamente quelli della Grecia classica, scalini luccicanti con scorrimani a forma di draghi o serpenti, che esprimono un sovraccarico di simbologie a mostrare la complessità dell’universo e dell’umana esistenza: il Tempio bianco, una volta che superiamo il recinto di entrata che gli fa da cornice anch’essa candida, ci accoglie con tutto il suo carico onirico. Il laghetto artificiale antistante la facciata dell’edificio, contrassegnata da creste irregolari ad altezze diverse, riflette, enfatizzandolo, il bagliore del bianco di ogni elemento architettonico, una luce accecante potenziata da specchietti incastonati nel gesso, principale componente di tutto il materiale usato.
Superiamo un ponte e imbocchiamo corridoi labirintici che a tappe concentriche ci fanno arrivare nella stanza più sacra, il Chedi o Ubosot, una sorta di Sancta sanctorum dove regna sovrano lo spirito del Buddha che ha raggiunto il Nirvana e dove sono ordinati monaci i ministri del suo culto. "Un traguardo, quello dell’illuminazione, che si raggiunge dopo un lungo percorso, un percorso di morti e rinascite, simboleggiato dall’intrico di corridoi e angusti passaggi. Solo chi è illuminato riesce a interrompere questa condanna di vita e di morte, entrando nella stanza del Buddha", mi dice il sorvegliante, che con molta discrezione invita a parlare sottovoce al cospetto della statua dell’Illuminato e, almeno qui, a non fotografare. Sì perché il tempio bianco è il regno indiscusso delle più avvenenti e famose influencer asiatiche, che mitragliano di scatti fotografici, orientando i bastoni per selfie per riprendersi in pose studiate al millimetro. Una storia che non promette fine quella del grande tempio buddhista: una breve esistenza iniziata tra le polemica per la scelta, da parte del suo costruttore, del bianco al posto del consueto, sgargiante cromatismo dei templi buddhisti, anche di quelli più antichi (come ricorda il vicino tempio blu, gemello di quello bianco per vicinanza geografica, ma in realtà ben diverso e ben più antico).
Il bianco è innanzitutto la purezza di una religione fortemente spirituale e per nulla dogmatica; e la purezza è l’antidoto ai mali del mondo ricordati all’interno dell’edificio da simboli di guerre nucleari o dell’attacco terroristico alle torri gemelle (parte evidentemente aggiunta dopo l’attentato nel 2001, perché il tempio è come la Sagrada Familia, in continua costruzione) o ancora pompe petrolifere stilizzate a ricordare i disastri ambientali. E i primi ad avere presenti questi forti rimandi a realtà terribili sono le statue di Michael Jackson, Neo di Matrix e Freddy Krueger di Nightmare, spettatori silenti della lotta tra il Bene e il Mare, a cui qui tutto rimanda.