È la città in cui poteva accadere che "uno sloveno fosse professore di francese nello Staatsgymnasium con degli studenti italiani, parlando tedesco", in cui il padrone dell’osteria "sapeva il tedesco, il friulano, l’italiano, naturalmente lo sloveno, il croato..."; è la città, anche, che viene maledetta nella più struggente canzone antimilitarista del ‘900, quella che a un certo punto dice, puntando il dito sui generali: “Voi chiamate il campo d’onore / questa terra di là dei confini / Qui si muore gridando assassini / maledetti sarete un dì”.
Il 2025 sarà l’anno di Gorizia, proclamata capitale europea della cultura con la gemella Nova Gorica (pronuncia gorìza), creata dalla Jugoslavia per dare un centro urbano ai sobborghi rimasti al di là del confine tracciato nel 1947, quando Gorizia subì lo strazio di una mutilazione che non accontentò nessuno. La linea bianca del confine separò famiglie, troncò amicizie, spezzò commerci e scambi linguistici e culturali che di Gorizia erano stati l’essenza, come spiega bene lo straordinario libro (e progetto multimediale) di Alessandro Cattunar da cui sono tratte le citazioni iniziali. Storia di una linea bianca (Bottega Errante Edizioni) è un ritratto della città attraverso i luoghi, le immagini e i racconti di decine di goriziani e restituisce la complessità di una storia dalle mille sfaccettature.
Gorizia diventò per la prima volta italiana il 9 agosto 1916, al culmine di una campagna militare costata decine di migliaia di morti, celebrata dai generali con l’enfasi della conquista nazionale, dai soldati con la canzone citata sopra. A Grande guerra finita, italianizzare Gorizia fu la missione dell’Italia liberale e poi del fascismo: la città, secondo il censimento austroungarico del 1910, aveva circa 30 mila abitanti, per la metà “italiani”, ma con oltre diecimila “sloveni” e più di tremila “tedeschi”, tutte definizioni da mettere fra virgolette perché il tema dell’identità nazionale e linguistica è sempre stato più complicato e controverso di quanto i nazionalisti avrebbero voluto.
Durante la seconda guerra mondiale Gorizia, come Trieste, fu inclusa nella “Zona di operazioni Litorale adriatico“, sotto il diretto controllo della Germania nazista, e come Trieste, nel ‘45, fu occupata brevemente dall’esercito di liberazione jugoslavo, che ambiva a includere nei confini della Federazione socialista le due città, “italianissime” solo nella retorica del nostro nazionalismo.
Nel settembre del ‘47, dopo un periodo di amministrazione internazionale, Gorizia fu dunque divisa, seguendo la cosiddetta “linea francese”, che aveva una logica “etnica”, con l’obiettivo di lasciare nel confine “sbagliato” il minor numero possibile di famiglie. Un’impresa condotta con rigore burocratico, salvo cedimenti di favore. È così che nel cimitero di Merna, piccolo centro a cinque chilometri dalla città, la linea bianca passò fra le tombe, e che molti contadini si trovarono con la casa in Italia e i campi in Slovenia, fino al paradosso di quella famiglia che si trovò la linea bianca di calce posata dai soldati alleati a dividere la stalla dal fienile: c’è la foto emblematica di una mucca con le zampe anteriori da una parte e le posteriori dall’altra.
All’opposto, nella zona nord della città la linea bianca a un certo punto forma un sette all’apparenza inesplicabile, ma utile a lasciare in Italia, secondo i desideri della proprietaria, la villa e il parco della contessa Lyduska Hornik, che nei mesi precedenti aveva trasformato la sua dimora in luogo di svago e divertimento per gli ufficiali inglesi e statunitensi.
E poi c’è Gorizia città, che si ritrovò in Italia ma con un confine urbano e senza più la maestosa stazione Transalpina, creata dagli Asburgo per collegare la “piccola Nizza” col cuore dell’impero. Per decenni un cancello verde, a metà della piazza Transalpina, è stato un tratto della cortina di ferro, un confine doloroso per tutti, solo in parte alleviato dalla politica della prepustnica, il lasciapassare che consentiva ai residenti il passaggio da una parte all’altra della frontiera.
Il cancello verde fu divelto quasi in sordina, il 12 febbraio 2004, quando il Comune di Gorizia ebbe necessità di rimuoverlo per completare il rifacimento della pavimentazione della piazza, in vista del superamento ufficiale del confine, previsto per il 1° maggio, con l’entrata della Slovenia nell’Ue. Fu improvvisata una piccola cerimonia, con qualche centinaio di persone presenti, ma senza i fasti che l’evento avrebbe meritato: ci sono fotografie che nostrano i sindaci di Gorizia e Nova Gorica, Vittorio Brancati e Mirko Brulc, arrampicati sul cancello, che si stringono sorridenti la mano, poco prima di manomettere personalmente i lucchetti.
Lì è cominciata la nuova storia di Gorizia e Nova Gorica, divenute idealmente quest’anno un’unica città. Il tempo dirà se sarà stato solo un episodio o se prenderà forma una visione che nel ‘47 fu minoritaria ma forse profetica, negli atti e nel cuore di quei goriziani che non vollero parteggiare per nessuno dei due “partiti” che animarono gli scontri, a volte anche cruenti, fra “italiani” e “jugoslavi”. Come dice nel libro Darko Bratina (1942-1997), intellettuale e politico, ricordando la giornata del 13 agosto 1950, quando lui aveva otto anni e fu un po’ consentita e un po’ conquistata una giornata di libero passaggio della frontiera: "Il confine era stato rifiutato, rigettato e negato con una pacifica invasione. Che atto di civiltà nel pieno della guerra fredda! Oggi potremmo dire di avere allora assistito alla caduta del muro di Berlino prima della sua stessa erezione".