di Lucetta Scaraffia
Ci sorprende ancora una volta Benedetto XVI, proprio lui che ha lasciato il pontificato perché si sentiva troppo vecchio: compiuti 94 anni, è diventato il papa più longevo della storia, sia pure "emerito". Proprio lui, che a un primo sguardo sembra essere stato il pontefice meno amato di questa epoca, quello che ha riscosso in misura minore il consenso dei media che hanno finito sempre per etichettarlo come conservatore, se non reazionario, anche a costo di non ascoltare bene le sue parole.
È invece a Ratzinger, ai suoi libri e alle sue omelie che dobbiamo ricorrere se vogliamo un bilancio serio e complessivo del rapporto fra la Chiesa e la temperie del mondo contemporaneo, se vogliamo capire chi siamo e dove stiamo andando. Soprattutto in quattro grandi discorsi concentrati tra il 24 febbraio e il 24 aprile del 2005 – per la morte di Giussani, ai funerali di Woityła, durante la messa pro eligendo pontifice prima dell’inizio del conclave, e l’omelia per l’inizio del pontificato – è riuscito in poche frasi a sintetizzare il suo sguardo critico e il suo programma rivolti a una Chiesa in crisi profonda.
Ai molti cattolici che spesso confondono la fede con il volontariato ha ricordato che "di questo passo, sostituendo la fede col moralismo, il credere con il fare, si cade nei particolarismi, si perdono soprattutto i criteri e gli orientamenti, e alla fine non si costruisce, ma si divide".
Un moralismo che dilaga oggi nelle nostre società anche sotto la forma del politicamente corretto, che cerca di farci sentire giusti "a buon mercato", senza ricorrere al riferimento di una fede.
Così la bontà diventa spesso una forma di attivismo, un darsi da fare per gli altri senza affrontare il problema di fondo che è nascosto e al quale dà risposta soltanto il cristianesimo, e cioè trovare e dare significato e scopo alla sofferenza.
La sua denuncia più nota, quella per la quale è stato criticato perfino in molti ambienti cattolici, è quella contro il relativismo: "Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina“, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie. Noi, invece, abbiamo un’altra misura: il Figlio di Dio, il vero uomo. È lui la misura del vero umanesimo".
Un’affermazione che va contro le mode culturali che predicano una tolleranza che diventa indifferenza e addirittura cinismo verso ogni forma di verità, e lascia gli esseri umani soli e disperati.
Così, nella solitudine e nella disperazione dell’essere umano che non si riconosce più come parte della creazione, ma la vuole solo dominare, vede le radici della distruzione della natura, malanno primo del nostro tempo: "Vi è il deserto dell’oscurità di Dio, dello svuotamento delle anime senza più coscienza della dignità e del cammino dell’uomo. I deserti esteriori si moltiplicano nel mondo, perché i deserti interiori sono diventati così ampi. Perciò i tesori della terra non sono più al servizio dell’edificazione del giardino di Dio, nel quale tutti possano vivere, ma sono asserviti alle potenze dello sfruttamento e della distruzione".
Anche se ricorriamo alle sue parole e ai suoi libri per capire, l’estrema fragilità e luminosità della sua vecchiaia ci ricorda la cosa più importante e cioè che "tutti gli uomini vogliono lasciare una traccia che rimanga. Ma che cosa rimane? Il denaro no. Anche gli edifici non rimangono; i libri nemmeno. Dopo un certo tempo, più o meno lungo, tutte queste cose scompaiono. L’unica cosa che rimane in eterno è l’anima umana, l’uomo creato da Dio per l’eternità. Il frutto che rimane è perciò quanto abbiamo seminato nelle anime umane – l’amore, la conoscenza, il gesto capace di toccare il cuore; la parola che apre l’anima alla gioia del Signore".