Martedì 5 Novembre 2024
GIOVANNI BOGANI
Magazine

Il figlio di Sergio Leone: "Un regista geniale, ancor meglio come papà"

Ha diretto “Per un pugno di dollari“ e “C’era una volta in America“. "Il suo segreto era la nostra famiglia: mai fatto una vacanza divisi. Sono cresciuto con ’zio’ Giuliano Gemma e con i figli di Tognazzi"

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Roma, 28 agosto 2022 - "Lo dico e lo penso spesso: è stato persino migliore come padre che come regista. E considerando quanto fosse importante come regista, credo di aver detto tutto".

Aveva un bel rapporto con la famiglia?

"Per lui era tutto. Non c’erano vacanze, per lui, dove non ci fosse la famiglia. E quando le mie due sorelle ebbero l’età giusta per sposarsi, volle comprare una villa all’Eur da dividere in tre: una casa per Francesca, una per Raffaella. E io, il più piccolo, sarei stato in casa ancora per un po’ con papà".

Andrea Leone è il figlio di Sergio Leone. Il regista che ha portato negli occhi degli spettatori di tutto il mondo i primissimi piani degli occhi di Clint Eastwood, diventati due fessure. Il regista di Per un pugno di dollari, di C’era una volta il West e di C’era una volta in America. Capolavori. Alla prossima Mostra del cinema, il 6 settembre, verrà proiettato, nella sezione Venezia Classici, il documentario Sergio Leone. L’italiano che inventò l’America di Francesco Zippel.

Un omaggio a una leggenda del cinema, attraverso le testimonianze di chi lo ha conosciuto e amato. Vi appaiono Clint Eastwood, Martin Scorsese, Jennifer Connelly, Quentin Tarantino, Giuseppe Tornatore, Steven Spielberg, Ennio Morricone, Robert De Niro, Carlo Verdone, Dario Argento, Giuliano Montaldo. Ognuno con un motivo per sentirsi fortemente legato al nome e al mito di Sergio Leone. Il documentario è stato voluto e sostenuto in modo determinante dai suoi tre figli: Raffaella, Francesca, Andrea. Ad Andrea, 54 anni, presidente della Leone film group, abbiamo chiesto di regalarci qualche foto del suo personale album dei ricordi.

Quando suo padre scomparve, lei aveva ventun anni. Ha fatto in tempo a percepire, a vivere le battaglie che suo padre, da regista, viveva?

"Certamente. Ho vissuto tutto il tormento di papà per realizzare C’era una volta in America. Per una questione di diritti sul libro da cui era tratto il soggetto, tutto fu bloccato per anni. Per mio padre fu una sofferenza enorme. Poi vissi i quindici anni in cui lui pensò al film sull’assedio di Leningrado. Lo aveva tutto in testa, lo aveva girato tutto nella mente".

Quali attori ricorda, di passaggio a casa vostra?

"Io sono cresciuto con ‘zio’ Giuliano Gemma, con Alberto Sordi, con Nino Manfredi; soprattutto con Ugo Tognazzi e i suoi figli. Andavamo spesso a Velletri, a casa di Ugo, a giocare a pallone con Gian Marco, Ricky e Thomas, il fratello ‘norvegese’, quando c’era".

Come Tognazzi, suo padre amava cucinare?

"Amava il risultato della cucina: mangiare. Ricordo viaggi a New York con itinerari precisi di ristorazione. Pranzi pantagruelici, come a un banchetto nuziale pugliese. E appena usciti, papà diceva: ‘E stasera vi porto a mangiare in un posticino che...’ Addirittura facevamo trasferte da Roma alla Costa azzurra per cercare dei ristorantini che lui conosceva: una notte ad Antibes o a Cannes, e un pranzo o una cena in certi ristoranti. Poi via, verso Roma".

Ha incontrato Robert De Niro, con cui suo padre girò C’era una volta in America?

"Certo. Era già uno dei più grandi attori del mondo, ma era molto schivo, molto introverso, e anche molto deciso. Non era facile avvicinarglisi. Ma dopo grandi scontri anche con papà, per il film su Leningrado papà aveva deciso: voleva lui, e nessun altro che lui".

La protagonista femminile era di una bellezza straordinaria. E più o meno sua coetanea.

"Jennifer Connelly! Quando la vidi a Cannes uscire dall’ascensore, il cuore mi saltò due battiti. Anche oggi è una donna bellissima, oltre che un’attrice pazzesca. Sì, di Jennifer Connelly mi innamorai, come credo qualche milione di spettatori".

E il mitico set dei western in Almeria, quello dei western all’italiana?

"Ci sono andato quando mio padre era produttore, in film come Il mio nome è Nessuno. Per me era come entrare nel mondo delle favole: c’era chi mi faceva salire a cavallo, chi mi faceva usare le pistole: però un set per un bambino è anche molto noioso, una landa deserta in cui la stessa scena si ripete ottocento volte. Meglio vedere il film già pronto".

Come entrò Carlo Verdone nella vita di suo padre? Fu lui a produrre Un sacco bello e Bianco, rosso e Verdone.

"Un caso. Io, mamma e le sorelle stavamo vedendo Non Stop, una trasmissione che andava in onda sulla Rai. Papà entrò, vide che ridevamo come matti. ‘Perché ridete?’. ‘Papà, c’è questo tipo che è un fenomeno, vieni a vedere’. Lui si incuriosì, venne a sbirciare e vide Carlo Verdone. Fu una folgorazione anche per lui. E decise che avrebbe messo il suo nome e la sua esperienza per aiutarlo a esordire nel cinema. Così fu, e fu un successo enorme".

Quale pensa sia stato il segreto, la forza di suo padre?

"Oltre allo sguardo cinematografico che aveva, io credo sia stata la famiglia. Papà all’inizio era povero, faceva l’aiuto regista, guadagnava pochissimo: mamma era già prima ballerina dell’Opera. A papà proposero un film di quarta serie da fare come regista, gli avrebbero dato un sacco di soldi, ma lui non era convinto. ‘Tu a questo film ci credi?’ chiese mia madre. E lui: ‘No, lo farei solo per te, per nostra figlia che sta per nascere, per i soldi’. E mia mamma: ‘No, piuttosto ci mangiamo pane e frittata tutta la vita. Tu fai le cose in cui credi’. E così andò, e fu una fortuna".