Roma, 22 marzo 2024 – Cambiamento, crisi o catastrofe climatica? Come dovremmo chiamare quel che sta accadendo sul pianeta Terra? L’uso di una parola, a scapito di un’altra, può cambiare la percezione dello stesso fenomeno. E come raccontarlo? Anche qui, il modo di porgere il contenuto può influire sulla sua comprensione/accettazione. Sono i dubbi tipici di una disciplina nuova, per quanto non nuovissima: la “climate fiction“, la narrazione, appunto, del cambiamento/crisi/catastrofe del clima. E Climate fiction days è il titolo della rassegna che si tiene a Pistoia oggi e domani alla Biblioteca San Giorgio: una serie di incontri per interrogarsi su “Come la letteratura verde può salvare il pianeta“.
Niccolò Scaffai, ordinario di Letteratura italiana contemporanea all’Università di Siena, fra le altre cose ha curato nel 2022 per l’editore Einaudi Racconti del pianeta Terra, una raccolta che spazia da Giacomo Leopardi a Jonathan Franzen, passando per Jack London, Primo Levi, Anna Maria Ortese, J. M. Coetzee, W. G. Sebald, Margaret Atwood e vari altri.
Professor Scaffai, la sua raccolta era un “benvenuto letterario nell’Antropocene“. I geologi l’altro giorno hanno però bocciato la nuova éra geologica. Cambia qualcosa per la letteratura?
"Io credo che il concetto di Antropocene, che viene dalla scienza ma ha precursori allo stesso tempo scientifici e letterari, resti comunque valido. È una categoria che mantiene il suo senso, nella dimensione umanistica, perché è basata su un’idea filosofica di fondo, cioè il relativismo implicito nel fatto di considerarsi, in quanto esseri umani, come specie. Non solo, quindi, come individui e come entità sociali, economiche, politiche, ma anche come specie capace di avere un impatto sull’ambiente, sul resto del vivente. In questo senso il concetto di Antropocene si pone all’opposto dell’antropocentrismo, pur condividendo la stessa radice semantica".
Il no dei geologi all’Antropocene resta però un fatto scientifico con cui fare i conti. O no?
"Lo stesso fatto che non sia ancora ben determinata la data d’ingresso nell’Antropocene è molto interessante. Le proposte spaziano dal tempo dell’estinzione dei grandi mammiferi per causa umana alle esplosioni nucleari del ’900 e possiamo osservare che tanta letteratura e tanta riflessione antropologica tendono a mettere a confronto il nostro passato più remoto, perfino gli scenari preistorici, con il nostro presente e futuro. È un cortocircuito culturale all’origine di molta fiction, la “climate fiction“ appunto. Si immagina un futuro in cui è forte il rischio di tornare indietro, in modo radicale".
C’è un’affinità con certa letteratura sul rischio atomico, forte negli anni ’60 e ’70?
"È stato proprio quel tipo di ansia a favorire, anche nella letteratura italiana, la fioritura di un pensiero ecologista. Penso a Paolo Volponi e al suo romanzo Il pianeta irritabile, del 1978, nel quale immagina una disastrosa guerra atomica, alla quale sopravvivono creature animali, o ibridi fra umanità e animalità. Penso ad autori come Carlo Cassola e Antonio Porta, agli scrittori che hanno riflettuto sulla trasformazione del paesaggio. Sono temi che oggi associamo alla categoria di Antropocene".
Perché preferire la narrativa ad altri generi di scrittura?
"Per dirla con Jonathan Safran Foer, la letteratura può farci credere in ciò che sappiamo, perché offre l’opportunità di immedesimarsi nelle situazioni, di rendere più concreto ciò che sappiamo solo in astratto".
Amitav Ghosh ne La grande cecità (Neri Pozza), del 2017, lamentava l’assenza nella narrativa dei temi legati alla crisi climatica. È ancora così?
"Le cose sono un po’ cambiate da allora. Se prima il tema era quasi esclusivamente visto in chiave fantastica e fantascientifica, oggi è presente anche in narrazioni realistiche e di vita quotidiana. Penso a romanzi italiani recenti nei quali l’Antropocene, diciamo così, diventa esperienza quotidiana: da Dopo la pioggia di Chiara Mezzalama (e/o 2021), a Romanzo senza umani di Paolo Di Paolo (Feltrinelli 2023), fino al romanzo di Alessandra Sarchi Il ritorno è lontano (Bompiani 2024)".
Che cosa ha detto Leopardi, due secoli fa, di così attuale?
"Nelle Operette morali fa due cose molto interessanti e anticipatrici del discorso letterario sull’Antropocene: la scienza cha nutre la letteratuta e la letteratura che dà voce alla scienza. La sua invenzione del Folletto e dello Gnomo che si accorgono della scomparsa degli umani – il brano presente nella raccolta che ho curato – è frutto della sua conoscenza dei fossili e della scienza sette-ottocentesca. E il dialogo fra i due introduce un punto di vista non antropocentrico. Leopardi inventa lo straniamento, anche se non lo chiama così, e riesce a gettare uno sguardo nuovo sul genere umano, a criticarne i comportamenti e l’assurda pretesa d’essere la forma di vita più intelligente, più importante, l’unica che conta. Sono coordinate di cui anche oggi possiamo fare tesoro".
Scriveva Leopardi: "Gnomo: Ma come sono andati a mancare qui monelli? Folletto: Parte guerreggiando fra loro, parte navigando, parte mangiandosi l’un l’altro, parte ammazzandosi non pochi di propria mano, parte infradiciando nell’ozio, parte stillandosi il cervello sui libri, parte gozzovigliando, e disordinando in mille cose; in fine studiando tutte le vie di far contro la propria natura e di capitar male".