di Giovanni Bogani
"Mi daranno anche una toga! Mi sembra incredibile. Io sono solo una regista!". Margarethe von Trotta ha la voce allegra, ridente. Parla in italiano, quando ci risponde al telefono, dalla sua casa di Berlino. È appena arrivata da Parigi, dove le è stata dedicata una ampia retrospettiva, e sta per prendere l’aereo per Firenze. Dove venerdì riceverà la laurea honoris causa in Lingue e letterature europee. A Firenze, sarà l’ospite d’onore del Festival di cinema e donne, che celebra da oggi a domenica la sua 45ª edizione, la prima con la direzione artistica di Camilla Toschi.
La regista berlinese, 82 anni, leggenda del cinema d’autore europeo, fin da quando vinse il Leone d’oro a Venezia nel 1981 per Anni di piombo, presenterà stasera – 20:30, a La Compagnia – il suo ultimo lavoro, Ingeborg Bachmann: Journey Into the Desert. Un film sulla poetessa austriaca Ingeborg Bachmann, interpretata da Vicky Krieps. La proiezione sarà preceduta da una conversazione fra la regista e Piera Detassis.
Perché sorride, al pensiero di ricevere una laurea honoris causa?
"In realtà sono profondamente onorata, e felice. Non so se me la merito, ma è stato un lungo cammino, non sempre facile".
Qual è stato un momento chiave di questo cammino?
"Quando ricevetti il Leone d’oro a Venezia, nel 1981, appena scesa dal palco mi intervistò Isabella Rossellini. Mi disse: sa che è la prima regista tedesca a ricevere un premio, dopo Leni Riefenstahl? In effetti, aveva vinto nel 1938 la coppa Mussolini, per Olimpia. Mi sentii addosso una grande responsabilità: quarant’anni dopo la regista del nazismo, potevo portare un altro pensiero. Un pensiero nuovo. Voltare pagina".
In molti suoi film ha tratteggiato ritratti di donne indipendenti, forti, creative. Hannah Arendt, santa Ildegarda von Bingen, e adesso Ingeborg Bachmann. Che cosa caratterizza il personaggio della poetessa, così come lo racconta nel film?
"Racconto il conflitto che vive con Max Frisch, uno scrittore, un intellettuale di prestigio, che mal sopportava il successo di lei".
Esiste ancora questa conflittualità, oggi?
"Direi di sì. In molti casi, gli uomini si mostrano felici dei successi delle donne, ma in realtà si sentono frustrati. Il successo delle donne dà ancora fastidio".
Vicky Krieps è l’attrice alla quale ha affidato il personaggio di Ingeborg Bachmann. Come ha lavorato con lei?
"Avevo visto Il filo nascosto, il film di P.T. Anderson che lei interpreta con Daniel Day-Lewis, e ho capito che era l’attrice perfetta. È intelligente, creativa, va nella direzione giusta immediatamente. Con lei vorrei fare anche il prossimo film. Con lei e con Barbara Sukowa".
Che storia ha in mente?
"Quella di una relazione fra madre e figlia: la madre è una attivista ecologista, una di quelle persone che in Germania si “incollano“ all’asfalto per bloccare il traffico. La figlia è un magistrato, un pubblico ministero, chiamata ad accusare la madre e gli altri attivisti".
Ci sono registe italiane che apprezza, che sente vicine?
"Alice Rohrwacher mi piace molto, come donna e come regista. Ha uno sguardo personale, unico. Mi è piaciuto molto anche il film di Paola Cortellesi, che racconta una storia dura, ma con mano leggera, anche con umorismo. E Valeria Golino, con cui ho lavorato in Paura e amore, è una grandissima artista. Ha portato in cinema le pagine di Goliarda Sapienza, una delle mie autrici preferite".
In generale, chi ama del cinema italiano?
"Vittorio De Sica è stato per molto tempo il mio Dio. E in tempi più recenti, amo il cinema di Moretti, di Martone, di Sorrentino".
Quali sono le battaglie che le donne devono ancora combattere?
"Sono state vinte tante battaglie e tante cose sono cambiate. Ma i femminicidi esistono ancora, anzi sono in aumento. Le donne sono ancora prede, in molti casi".
Il film con cui vinse il Leone d’oro raccontava il terrorismo. Con quali sentimenti ricorda quegli anni?
"Sono stati fatti molti errori, anche da parte dei “rivoluzionari“. In Germania volevano fare una rivoluzione, rappresentare la rottura con il passato, con il nazismo: ma si sono comportati come loro. Anche noi sessantottini non sempre abbiamo pensato con il nostro cervello".