Roma, 15 agosto 2023 – C’è stato davvero, quasi sessant’anni fa, quel tempo sognato che bisognava sognare. E quel tempo è un caldissimo mercoledì d’agosto del 1963, il 28, in una delle città più afose d’America, Washington, e non parlo solo del meteo. Ci sono 30 gradi e mezzo sul National Mall, quel vialone lungo lungo che finisce sulla scalinata del Lincoln Memorial. Lì deve terminare la grande Marcia per il lavoro e la libertà che, secondo gli organizzatori, dovrebbe riunire almeno 100mila persone. Alla fine saranno più del doppio, 250mila, compresa la cosiddetta “Divisione Hollywood“, guidata dall’attore e cantante Harry Belafonte, che ha fatto il giro degli Studios in California affinché i produttori liberassero le loro star per un giorno.
E lì, ora, ci sono tutti: Marlon Brando, Paul Newman, Charlton Heston e pure Josephine Baker dalla Francia. L’ultimo a parlare fra gli oratori sarà il reverendo Martin Luther King Jr. Nessuno può sapere cosa sta per accadere. E forse non lo sa neppure lui, leader del movimento dei diritti civili per gli afroamericani, che è bravo a parlare in pubblico sì – è Dna, perché è figlio, nipote e pronipote di pastori battisti – ma qui e ora, per la prima volta, ha la copertura delle tv nazionali. Ed è tutta un’altra storia.
Flashback. È il 27 sera, hotel Willard di Washington. MLK sta mettendo insieme le idee per il discorso da fare e il suo consigliere Wyatt Walker non ha dubbi: "Non usare le battute su “I have a dream“. È banale, è un cliché. E l’hai già usato troppe volte". Già: il reverendo King, il suo dream, lo aveva già sognato in almeno altri tre discorsi, l’ultimo una settimana prima a Detroit. Ma non se li ricordava nessuno: ergo, il suo sogno non era rimasto in testa a nessuno. MLK si alza e lo guarda: "Ora vado di sopra nella mia stanza per consigliarmi con il Signore". E alle 4 del mattino del 28 agosto il Signore risponde: King dà il testo del discorso ai suoi collaboratori e di “I have a dream“ non c’è traccia. Alle 15 del 28 agosto 1963 il reverendo King sale sul podio del Lincoln Memorial.
Aperta parentesi: alla Casa Bianca lo guarda anche il presidente John Kennedy. Che alla fine dirà, col suo accento bostoniano, puntando un dito verso l’apparecchio: "He’s damned good", "quello è dannatamente bravo"; di ben altro tono, testuale e da brividi, la reazione del vicedirettore dell’Fbi, William Sullivan, che così scrisse al famigerato direttore J. Edgar Hoover: "È il negro più pericoloso per il futuro di questa nazione". Chiusa parentesi.
MLK inizia a parlare: abito e cravatta neri su camicia bianca. "Oggi sono felice di essere con voi...". Ma le anime non spiccano il volo, né le parole sembrano scuotere i cuori del National Mall. "Non era così potente come altre volte", dirà poi John Lewis, il leader dell’ala studentesca del movimento. E poi, all’improvviso, il Destino si fa cronaca, si trasfigura in storia fino a diventare leggenda. MLK parla, rallenta, finché vicino a lui la cantante gospel Mahalia Jackson, sua amica, urla: "Raccontagli del sogno, Martin". Lui si ferma, continua, lei lo urla una seconda volta. Martin è al settimo paragrafo di un discorso che durerà 17 minuti. Ed è quasi alla fine. Ora o mai più. Allora l’oratore si trasforma in predicatore e il Lincoln Memorial nel pulpito di una chiesa battista. MLK allontana i fogli del discorso da sé (li raccoglierà l’ex giocatore di basket George Raveling, che li possiede ancora e ha rifiutato cifre astronomiche per venderli) e aspetta la fine degli applausi.
"Oggi, amici miei, vi dico: anche se dobbiamo affrontare le difficoltà di oggi e di domani, io continuo ad avere un sogno". Wyatt Walker – perché c’è sempre qualcuno dalla parte sbagliata della storia – impallidisce: "Oh merda, sta usando il sogno".
E lo usa, eccome se lo usa.
"Ho un sogno: che un giorno questa nazione sorgerà e vivrà il significato vero del suo credo: noi riteniamo questa verità evidente di per sé, che tutti gli uomini sono creati uguali".
Boato, pausa, storia.
"Ho un sogno: che i miei quattro bambini un giorno vivranno in una nazione in cui non saranno giudicati dal colore della loro pelle, ma per l’essenza della loro personalità".
Sarà il discorso più importante del Ventesimo Secolo. “I have a dream“ è un mantra che si ripete in ogni protesta, in ogni rivolta, in ogni speranza di un futuro migliore in nome dell’uguaglianza, in ogni angolo del mondo. Anche se dallo stesso discorso, talvolta si capiscono cose diverse. Accade ancora oggi, e non solo in America, dove non mancano eventi a sfondo razziale che dimostrano come neri e bianchi abbiano poche probabilità di vedere gli stessi problemi, di non essere d’accordo sulle cause di tali problemi e, quindi, è improbabile che siano d’accordo su un rimedio. E fa impressione, dice il New York Times, che sia questa, che ha 60 anni, "l’ultima vittoria morale del movimento per i diritti civili per cui c’è ancora consenso".
MLK, l’anno successivo, nel ’64, riceverà il Nobel per la pace. Morirà assassinato nel ’68, ucciso come l’uomo che gli aveva insegnato l’arte della guerra senza fare la guerra, Gandhi, escludendo la violenza (a differenza dell’altro leader nero dell’epoca, Malcolm X) non solo come mezzo politico, ma come metodo di agire collettivo. Di quella violenza, tuttavia, fu vittima. E del suo discorso tanto improvvisato quanto potente fu vittima. "Le nostre vite cominciano a finire il giorno in cui stiamo zitti di fronte alle cose che contano", disse una volta. La sua, invece, iniziò a finire quando ebbe il coraggio di alzare la voce. Che, sessant’anni dopo, è ancora straordinariamente forte. E risuona per tutti coloro che si ribellano al silenzio.