Ghidetti
Studiare per riflettere. Sembra un po’ questa la cifra stilistica de L’abbaglio, film di Roberto Andò in questi giorni nelle sale cinematografiche del Paese. E lo studio per la riflessione riguarda un capitolo luminoso della nostra Storia (forse, assieme alla Resistenza, il più luminoso), vale a dire la Spedizione dei Mille del 1860 quando Garibaldi e le sue camicie rosse liberarono l’Italia meridionale dal giogo borbonico.
Subito, e correttamente, il regista mette a fuoco il problema principale, oggetto di interesse e polemica feroce in migliaia e migliaia di libri, sul fine ultimo dell’epopea garibaldina: fu rivoluzione nazionale e basta o aveva finalità sociali, di redenzione del popolo schiavo di un apparato feudale, mafioso e tirannico? La scena è esemplare: l’Eroe dei Due Mondi promette di abolire la tassa sul sale e di distribuire le terre ai contadini. Loro, la plebe, esulta. I “signori”, con tanto di papillon e bombetta, si guardano perplessi. Una eco chiara e incontrovertibile dei temi cari al Gattopardo di Tomasi di Lampedusa con il famoso (e abusato) tutto cambi affinché nulla cambi.
E poi ci sono i protagonisti in carne e ossa dell’avventura garibaldina, i Mille appunto. Giovani e meno giovani, con le loro camicie rosse (qui Andò ne fa indossare troppe, nella realtà erano molte meno essendo i soldati vestiti con le più differenti e bizzarre fogge), le loro paure, le loro speranze. Garibaldini riscoperti, verrebbe da dire. Come il protagonista del film: quel Vincenzo Giordano Orsini (interpretato da un Toni Servillo in ottima forma) autore della finta deviazione verso l’interno della Sicilia che, di fatto, permise a Garibaldi di entrare a Palermo dando così una botta irreversibile all’esercito del Borbone. Un Orsini che, da vecchio mazziniano (in gioventù aveva aderito alla Giovine Italia), capisce subito che i sogni di redenzione della popolazione saranno uccisi dal cinismo della politica politicante e dal potere dei nuovi padroni, i Savoia.
Ma Andò compie un’ulteriore mossa, intelligente e imprevedibile. La mancata, vera rivoluzione non è solo opera dei poteri forti, ma anche di parte della gente. In tal senso sono esemplificativi i due personaggi (macchiette imbroglione) interpretati con rara maestria da Ficarra e Picone): usano la Spedizione dei Mille per i loro interessi, più o meno leciti, più o meno eticamente giudicabili. Insomma, la rappresentazione perfetta dell’italiano medio, quasi a voler rappresentare che i grandi cambiamenti li pensano e li attuano le élites intellettuali. Una coppia, quella di Ficarra e Picone, capace di gesti nobili che poi, e di più non riveliamo, tali non sono. L’imperdibile finale lo dimostra.
Altro elemento metaforico ma con forti radici storiche riguarda l’uso delle carte da gioco, vere e altre protagoniste del film. Esse sono presenti sin dall’inizio e caratterizzano tutte le vicende. Come a dire (ed è vero): l’impresa garibaldina fu un azzardo (costruito a tavolino, certo, ma su di un tavolino disseminato di ideali) e, come tale, dava enorme fastidio alla politica e quindi doveva essere fermato. Meglio: utilizzato per farne un proprio tornaconto, la conquista di uno Stato sì tirannico e dispotico, ma pur sempre sovrano.
Azzeccati, segno di uno studio intenso e profondo, i luoghi della storia, vale a dire quella Sicilia occidentale situata nel trapanese e impareggiabile nel suo mare, nelle sue coste, nei suoi cieli abbaglianti.
Un lavoro, dunque, storicamente ben architettato, salvo lo sbarco di Marsala, un po’ affrettato e senza la presenza delle navi inglesi che, di fatto, permisero l’inizio di quella fantastica avventura. Patriottica eppur idealmente permeata da una gran voglia di riscatto sociale.