Lewis Allan e Lou, le dita che premono sulle corde della chitarra e le stesse dita utilizzate per fare il linotipista da suo padre, la New York dei club e quella dei bassifondi, l’eroina e il tai chi. In Lewis Allan Reed, detto Lou, la dualità (anche nell’accezione di genere) convive. Dieci anni fa se ne è andato. Difficile raccontare Lou Reed senza immergersi in New York. E se Frank Sinatra, the voice, è la voce e per molti anche il re di una New York patinata, Lou Reed è in assoluto il re della città (come provocatoriamente intitola Will Hermes la biografia del fondatore dei Velvet Underground, uscita in Italia per Minimum Fax). Proprio per la sua capacità di attraversare (e raccontare in musica e non solo) i molteplici mondi di Nyc.
Dieci anni fa, all’indomani della morte, Bono (il cantante degli U2) regalò un ricordo accorato di Lou Reed e ancorato a New York. Partendo proprio dal rumore che nei Velvet Underground non era rappresentato solo dallo sferragliare delle chitarre, ma anche dalla viola di John Cale. In Heroin la sensazione dell’ago che entra nella vena viene resa proprio da Cale. E pensare che – come ricorda Hermes nel suo libro – Reed nel concerto d’addio dei Velvet (1970) invitò i suoi genitori al Max’s Kansas City, ma non cantò Heroin e quando presentò I’m waiting for the man, disse che era ispirata a un uomo che stava aspettando il bus e non invece a uno che stava attendendo il suo spacciatore. Qualche settimana dopo sarebbe tornato nella casa dei genitori, a lavorare nella tipografia del padre, a dormire nella cameretta. Ma aveva già lasciato il segno e l’avrebbe fatto poi con gli album solisti (Transformer, Berlin, non accompagnati all’inizio dalle vendite, e New York, appunto). Brian Eno sintetizzò così l’esperienza dei Velvet Underground a proposito dell’iconico disco d’esordio. "Solo trentamila persone lo comprarono, ma ognuna fondò una band". Rock’n’roll Animal, davvero.
Matteo Massi