di Olga Mugnaini
"Una storia vissuta come se quei marmi non fossero pietre, ma cose vive". Talmente vive da essere mangiate. Letteralmente. I restauratori non credevano ai loro occhi, anche se ci speravano, quando hanno visto che quei batteri stava consumando davvero tutti i residui di sporco depositati nel corso dei secoli sui volti scolpiti da Michelangelo.
È così che, sfruttando il periodo del lockdown, all’interno della Sacrestia Nuova delle Cappelle Medicee nel complesso di San Lorenzo, è stato tentato per la prima volta un restauro con la tecnica della biopulitura, messa a punto dall’Enea.
I pazienti in cura, oltre all’intera Sacrestia, proprio loro: le celebri sculture di Michelangelo, del Giorno e della Notte, del Crepuscolo e dell’Aurora, personificazioni delle varie ore, create a più riprese dal Buonarroti intorno al 1530 e adagiate sui sarcofagi con le spoglie dei defunti della famiglia Medici.
Ieri, la direttrice dei Musei del Bargello Paola D’Agostino, ha presentato l’intervento, condotto con la supervisione di Monica Bietti, storica dell’arte e già responsabile del museo delle Cappelle Medicee, dove il restauro alla Sacrestia Nuova è durato oltre otto anni.
Ma la parte più delicata e sorprendente dell’intero lavoro è stata quella sul sarcofago di Lorenzo duca di Urbino, alterato da numerose macchie scure.
Le analisi eseguite dal Cnr avevano evidenziato che si trattava di materiali organici, filtrati dall’interno.
Insomma, residui della salma.
La storia ha del macabro, ma è anche affascinante: gli studiosi ritengono che quegli aloni fossero da ricondursi alla sepoltura di Alessandro de’ Medici, figlio di Lorenzo duca d’Urbino, assassinato e sepolto senza essere eviscerato, come invece si usava all’epoca per la dinastia medicea.
Accertato ciò, si sono cercati alcuni ceppi batterici “golosi“ di questa materia organica. E dopo averne testati undici diversi tipi, sono stati scelti i tre “migliori” per la biopulitura del sarcofago: Serratia ficaria Sh7, Pseudomonas stutzeri Conc11 e Rhodococcus sp Z-Cont. Risultato, l’esercito dei microbi, applicati con impacchi, ha eliminato tutto lo sporco senza alterare il marmo.
"Il restauro è stata anche una straordinaria occasione di studio – spiega Monica Bietti –. Abbiamo potuto, ad esempio, distinguere le mani dei collaboratori di Michelangelo, documentati in questa impresa, da quelle del maestro. Così come si comprende molto bene che dal blocco in marmo scelto da Michelangelo per ciascuna figura, egli con il metodo del “levare”, partendo dal modello in terra a grandezza naturale, trova la forma, arrivando alla finitura tramite l’uso di diversi tipi di attrezzi. Lo stato di finitura delle sculture varia a seconda dei personaggi e anche in relazione alla loro collocazione e al rapporto con la fonte di luce".
L’impresa ha visto il coinvolgimento di diverse professionalità e di istituti di eccellenza della ricerca e innovazione scientifica italiana, con un team tutto al femminile composto dalle restauratrici Daniela Manna e Marina Vincenti, dalle ricercatrici dell’Ispc-Cnr Donata Magrini, Barbara Salvadori e Silvia Vettori, e Anna Rosa Sprocati e Chiara Alisi dell’Enea.
"La Sagrestia Nuova è un luogo dove all’apparenza tutto sembra perfetto – aggiunge Monica Bietti –: e invece le vicende di questo spazio narrano di un susseguirsi di difficoltà e abbandoni, di oblio e rinascita. Una storia vissuta come se quei marmi non fossero pietre, ma cose vive. Per questo il restauro fin dall’inizio è stato testato e poi sottoposto a costanti verifiche ottiche, metodologiche e scientifiche". "Un risultato – aggiunge Paola D’Agostino – che permette ora di ammirare i capolavori fiorentini di Michelangelo, con una nuova consapevolezza della fase delicatissima di scelta e lavorazione dei marmi".