Lunedì 30 Settembre 2024
CLAUDIO CUMANI
Magazine

Glauco Mauri, il teatro come ragione di vita

È morto sabato a 94 anni, ha recitato fino all’ultimo. Da Shakespeare e Dostoevskij a Beckett, sempre un grande inteprete

Glauco Mauri, il teatro come ragione di vita

Glauco Mauri, morto a Roma a 94 anni. Sotto, con Roberto Sturno (1946-2023) all’inizio del loro sodalizio artistico

Ha tenuto la sua ultima recita, a quasi 94 anni, nel teatro dove aveva iniziato, a 15, a fare il suggeritore prima ancora che l’attore. Al Rossini di Pesaro, la sua città. Glauco Mauri, che l’altra notte è spirato nella sua casa romana, avrebbe dovuto riprendere lo spettacolo De Profundis la settimana passata proprio a Roma, al Vascello, ma le condizioni di salute lo hanno costretto alla cancellazione delle date. Da Pesaro era tornato molto stanco e con una febbre che sarebbe purtroppo inesorabilmente salita. La morte è arrivata sabato sera inaspettata, dopo cena. A quell’allestimento, De Profundis di Oscar Wilde, teneva in maniera particolare perché rappresentava una sorta di omaggio a Roberto Sturno, il suo compagno di viaggio spirato proprio un anno fa a 78 anni e con il quale dal 1981 aveva deciso di fare compagnia. "Siamo stati – diceva- maestro e giovane, fratello e fratello, padre e figlio e infine figlio e padre, sempre sulla base di una grande intesa non priva di discussioni". Abitavano vicini e lui raccontava che la sua più grande gioia era frequentare la famiglia dell’amico e veder crescere i figli.

Aveva una grande etica, Glauco Mauri. Spiegava che fra i mestieri che avrebbe potuto fare quello dell’attore era sicuramente il più utile perché il teatro, come diceva Bertolt Brecht, contribuisce all’arte più grande di tutte, ovveroa quella di vivere. Forse anche per questo quando gli si chiedeva se mai avesse avuto intenzione di ritirarsi lui rispondeva con una innocenza quasi infantile: "Perché mi devo privare della felicità che mi offre la scena, della possibilità di commuovermi, dell’opportunità di incontrare amici che mi spiegano la solitudine come zio Vanja o la follia come re Lear?".

Era nato, appunto a Pesaro, il primo ottobre 1930 da una famiglia povera: la madre infermiera, il padre morto quando lui aveva nove mesi, due fratelli più grandi, gli amici che parlavano soltanto il dialetto. È lì che si appassiona allo spettacolo, infilandosi di soppiatto nei palchi del teatro per ascoltare la musica. Inizia a fare il suggeritore in una compagnia amatoriale ma il giorno del suo debutto come attore il sipario si incaglia e succede un mezzo guaio. A 18 anni la grande sfida: Roma, l’Accademia d’arte drammatica, i mitici maestri Orazio Costa e Sergio Tofano. "Mi sentivo sperduto in città – raccontava spesso – Non avevo mai preso un tram nella mia vita".

Arrivano le prime scritture, i colleghi eccellenti (lavorò a lungo nella compagnia Albertazzi-Proclemer), le tournée. Diceva: "Stavo in quinta ad ascoltare i grandi come Benassi, Randone, Ricci e Cervi. Ne rubavo i segreti, questa è stata la mia vera scuola". Nel ‘61 la prima svolta: con Franco Enriquez, Valeria Moriconi e Lele Luzzati fonda la leggendaria Compagnia dei Quattro, formazione fondamentale nella storia del teatro italiano. "Eravamo degli scavalcamontagne", ricordava spesso con commozione.

Sono anni intensissimi per Mauri: porta in Italia capisaldi dell’assurdo come Atto senza parole e L’ultimo nastro di Krapp di Samuel Beckett, incontra i grandi Shakespeare (da La bisbetica domata al Mercante di Venezia), si avvia a diventare volto di una tv in bianco e nero che non disdegna Goldoni e Racine (ma la popolarità arriverà negli anni ‘70 con I demoni e con I Buddenbrook). Erano fin da allora la sensibilità di interprete, la capacità di cogliere l’umanità profonda dei personaggi, e la forza d’introspezione a costruire la sua importante cifra d’attore. Tenta anche il cinema con Bellocchio, la Cavani e Argento ma quella non era la sua strada.

Nell’81, a 51 anni, ancora, una virata: stanco dei compromessi e delle pastoie burocratiche, decide di fondare un gruppo teatrale privato tutto suo appunto insieme a Roberto Sturno. "Non avevamo un soldo ma molto entusiasmo", ripeteva come un mantra. Andò bene. "Sono stati Shakespeare, Beckett e Dostoevskij a formare il mio pensiero", ripeteva. Non aveva né rimpianti né rimorsi perché diceva di aver vissuto con onestà, era attento ai giovani artisti e al Nuovo. "Oggi certi ragazzi sono molto più preparati degli attori dei miei tempi", ammetteva.

Una volta gli chiesero perché in Italia ci fossero tanti attori importanti in età avanzata. E lui, da involontario mattatore, rispose: "Perché la tradizione è la vera base del futuro". La camera ardente è aperta oggi all’Argentina di Roma dalle 11 alle 15.