Roma, 4 febbraio 2018 - «Stiamo distruggendo tutto: la buona cucina, la qualità dei nostri grandi prodotti, i sapori veri che ormai quasi nessuno sa riconoscere. Dovremmo vergognarci. Se andiamo avanti così, tra vent’anni saremo tutti delle pecore Dolly». Gianfranco Vissani è sempre stato una voce fuori dal coro. Caustico, provocatorio, diretto e sincero fin dai tempi di Unomattina, negli anni Novanta, quando l’indiscusso numero uno dei cuochi italiani divenne il primo autentico masterchef nella storia della televisione. Oggi è scrittore, conduttore televisivo e tanto altro, ma continua a raccogliere successi nel suo bel ristorante di Baschi, in Umbria. I suoi piatti cambiano di continuo e, usciti dal menù, non rientrano mai, nemmeno quando sono leggendari come quell’anatra laccata che qualche chef stellato ricorda ancora con devozione. Da anni un innovatore compulsivo ed eversivo come Vissani si batte, a colpi di clava più che di fioretto, per difendere la tradizione del cibo. A patto che «la tradizione sia salvaguardia del fuoco e non l’adorazione delle ceneri», tanto per citare un personaggio che col cuoco umbro non ha molto in comune (Papa Francesco). Ma non è una battaglia facile.
Scusi Vissani, i cuochi italiani sono ormai apprezzatissimi nel mondo, la nostra terra e i nostri mari ci offrono prodotti di qualità e varietà senza uguali, e lei va dicendo che siamo allo sfascio? «Qui stiamo rovinando ogni cosa. I prodotti italiani sono un bene inestimabile, avrebbero bisogno di essere aiutati. Invece succede il contrario, nessuno li tutela. Ha visto quell’accordo tra Europa e Giappone che riguarda i formaggi?».
Quello che in 17 anni ridurrà dal 30 per cento a zero le tasse giapponesi su parmigiano e pecorino? «Sì, ma darà anche via libera alla vendita di porcherie come il parmesan o altre contraffazioni che già massacrano le nostre eccellenze. È una vergogna. E noi, tutti zitti? L’Ue ci ha imposto perfino la misura delle vongole. Intanto importiamo pomodori cinesi e le arance siciliane marciscono a quintali sugli alberi. È un sistema impazzito».
Ma almeno la nostra ristorazione cresce, anche in qualità. «Le faccio una domanda: quanti dovrebbero essere gli stellati in Italia? Glielo dico io: cinque o sei, massimo dieci. Invece sono infinitamente di più. Nelle cucine si lavora con bisturi, pinzette, schiumette, si fanno i gelati con l’azoto. Non sappiamo più che sapore deve avere uno stinco, un capretto, una guanciola. Abbiamo perso uno dei cinque sensi: il gusto. Tutti fanno cotture sotto vuoto, a bassa temperatura, che sono il più grande schifo del mondo, servono solo a risparmiare carne, ammazzano sapori e consistenze, tutto sa di bollito. Anzi, non sa di nulla, perché il bollito vero è buonissimo, quando non è fatto a bassa temperatura».
Insomma, ce l’ha di nuovo con Bottura e con chi cucina come lui. «Per carità, lasciamo stare Bottura, si sa che è bravissimo. Ma, parlando in generale, lo vede che gente circola nelle cucine? Certi cuochi fanno pietà. Non sanno cos’è un broccolo fiolaro, le mammole, le castraure. Non distinguono le schie dai gamberi rosa, comprano tutto da quattro colossi commerciali che monopolizzano il mercato e che forniscono perfino il fondo bruno in vaschette o le anatre porzionate e congelate. L’unica cosa che considerano importante è che tutto sia tenero, anche se non sa di niente. Tanti non sono capaci nemmeno di cuocere la pasta: se usi acqua del rubinetto, il cloro intacca lo spaghetto, lo spacca, perché il cloro non evapora, anzi, nell’ebollizione si concentra».
Quindi bisognerebbe cuocere la pasta con l’acqua minerale? «Certo. Un buon ristorante dovrebbe farlo. Io uso la minerale anche per preparare il brodo. Vallo a spiegare a certi chef che collezionano figuracce perfino in tv».
Ad esempio? «Ho visto cuochi famosi che salano la carne prima di cuocerla. Un altro raccontava che il sale evapora. È l’acqua che evapora. Dia retta a me, il disastro generale è enorme. Solo Gualtiero Marchesi lo aveva capito».
Da dove nasce tutto questo? «Dall’intellettualismo, dalla chimica. Nasce soprattutto con Adrià, in Spagna. Anche le coltivazioni intensive iniziarono in Spagna. Poi gli spagnoli ci hanno ripensato e stanno tornando indietro, sia sulle coltivazioni che sui metodi di Adrià. In Italia invece nessuno torna indietro, perché sarebbe più difficile fare soldi. E qui contano solo i soldi».
La cucina dilaga sui media. Anche lei è andato a Masterchef, che cosa c’è di buono e meno buono in programmi come quello? «Alla gente Masterchef piace, è divertente. Di veramente buono c’è il montaggio, un grande montaggio. Ma quei ragazzotti, così giovani e così saccenti, pieni di sé...».
Proprio lei, il primo cuoco televisivo, è così critico con la cucina in tv? «Io facevo piatti. E li spiegavo».
Il primo problema, non solo dei ristoratori, è trovare buone materie prime. «Certo, bisogna cercare, confrontare, affidarsi a fornitori e negozianti di fiducia. Diffidare degli ortaggi troppo lisci e troppo belli. E mai farsi consegnare la spesa a casa».
Carni, olio, verdure. Quali sono i prodotti di qualità più difficili da reperire? «La carne buona è rara. Compriamo bistecche che quasi spariscono durante la cottura. Gli allevamenti intensivi, anche quelli in regola con la legge, producono danni incalcolabili. Anche l’olio d’oliva corre rischi a causa delle colture intensive, ma è già più semplice trovarlo buono. In compenso stiamo rovinando tanto altro, perfino il tartufo: quello nero coltivato è una cosa orribile».
Ha fatto la pace con i vegani, quelli che lei ammazzerebbe tutti? «Ma quale pace, quelli sono pericolosi, sono delle autentiche sette. Pensino alla salute dei loro figli. Ora ci sono pure i fruttariani, quelli che vivono con una melina al giorno. Sa dove dovrebbero andare questi? Figuriamoci, io non sopporto nemmeno le mamme che vanno dal macellaio a comprare la bistecchina e dicono: mi raccomando, magra, è per il bimbo. Ma il grasso serve, dà morbidezza e sapore, mica uccide. È sempre una questione di misura. E di intelligenza».