Giovedì 19 Dicembre 2024
PIERO DEGLI ANTONI
Magazine

Giacomo Poretti: "Io, comico, vi racconto la mente e l’anima"

L’attore a teatro con uno spettacolo che ricorda i suoi anni da infermiere in ospedale. "Avevo il terrore di affrontare da solo un’emergenza". Nei mesi scorsi la positività al Coronavirus: "Ho ritrovato il piacere di stare in famiglia"

Il comico di solito lavora di pancia, ma stavolta andrà al Festival della Mente. Lui è Giacomo Poretti, componente del trio Aldo Giovanni e Giacomo. Sabato si esibirà al Teatro degli Impavidi di Sarzana nello spettacolo Chiedimi se sono di turno.

Che cosa ci fa un comico al Festival della Mente?

"Me lo sono chiesto anche io, e l’ho domandato alla direttrice. Le ho detto: non è che il Covid vi ha dato alla testa? Ma hanno insistito e io ne sono rimasto lusingato, anche se mi sento vagamente fuori posto. Il tema del Festival è il sogno, ma io parlerò soprattutto di sonno".

In che senso?

"Lo spettacolo è il racconto di un infermiere in un ospedale, come lo sono stato io per 11 anni, dal 1974 al 1985. Traccio un parallelismo tra l’infermiere e il navigatore oceanico in solitaria, non quelli di adesso, ma quelli degli anni Settanta quando il Gps non c’era. Gli infermieri, come i navigatori, hanno in comune una cosa: il terrore di affrontare da soli un’emergenza grave. Quando in ospedale fai il turno da solo può capitare che qualcuno senza darti alcun avvertimento abbia un arresto cardiaco. E allora hai cinque minuti di tempo".

A lei è successo?

"Sì, e per fortuna si è concluso positivamente. È un racconto che sta tra il comico e il drammatico. Con lo spettacolo racconto altre due svolte epocali nell’ambiente della sanità. Il primo: il passaggio dal vetro alla plastica. Quando sono arrivato io, tutto era di vetro, poi sostituito appunto dalla plastica. Secondo, da secoli le suore erano depositarie assolute dell’assistenza infermieristica. Negli anni ‘70 sono arrivati i maschi, i laici, che a poco a poco le hanno sostituite completamente".

Nel 1985 cosa è accaduto alla sua vita?

"In contemporanea al lavoro di caposala ho frequentato una scuola di teatro, e alla fine mi sono deciso al grande passo. Ma a quell’epoca per gli attori era durissima, Milano era piena di cabaret. Da metà degli anni Novanta per fortuna la musica è cambiata".

Ricordo una sua partecipazione al leggendario Festival del cabaret di Loano...

"Nel 1986 vinsero Giovanni e Aldo. Nel 1987 io e Marina Massironi (sua ex moglie, ndr) eravamo dati per vincenti, ma al momento di salire sul palco si scatenò un diluvio universale. Non abbiamo più voluto tornarci".

Il precedente spettacolo Fare un’anima parlava appunto di anima. Ora si trova al Festival della mente. I due concetti sembrano agli antipodi: l’anima è sentimento, la mente razionalità. C’è un rapporto?

"Lo spettacolo sull’anima era nato perché ci sono certe parole che rischiano di estinguersi e finiscono nel dizionario, che è il cimitero delle parole. Uno di questi termini a rischio estinzione è appunto anima. Oggi l’anima è sempre meno nominata. Oggi non abbiamo più un’anima, ma un account. Abbiamo affidato tutta la nostra esistenza, i nostri segreti, a una password che spesso ci dimentichiamo. Ci siamo affidati sempre più all’aspetto materialistico e scientifico del mondo. Ma nemmeno un’analisi del sangue o una Tac possono scoprire dove nel nostro cervello risiedono l’amicizia, l’amore per i figli, il coraggio. Non li puoi scoprire né con i raggi X né con un selfie".

Insisto: esiste un rapporto tra mente e anima?

"Prima di scrivere lo spettacolo mi sono trovato ad avere molti dialoghi col professore Fabrizio Tagliavini, responsabile scientifico del Besta. Se gli chiedevo dove si trova il coraggio, lui mi rispondeva che da neurologo non sapeva dirlo. Però, aggiungeva, bisogna avere il coraggio di esporsi all’infinito, al mistero delle cose. Quando è nato mio figlio un vecchio sacerdote è venuto a trovare me e mia moglie. Ci disse: ‘avete fatto un corpo, ora dovete fare un’anima’. Era una frase cretina che però mi ha fatto partire un ragionamento. Di solito i padri sperano che il figlio faccia l’avvocato, l’influencer, l’enologo, lì si trattava invece di trovargli un’anima".

Quanti anni ha suo figlio Emanuele?

"Quasi 14. Naturalmente è interista, sennò l’avrei mandato in collegio. Lui, come me, soffre come un cane. Ma cosa vogliamo farci, è il nostro destino. Per ora dice che da grande vuole fare o il medico o il biologo marino. Vedremo".

Lei è stato colpito dal Covid. Come ha vissuto quel periodo?

"Ci siamo ammalati sia io sia mia moglie, io più gravemente. La febbre mi è durata una settimana, la malattia un mese. Avevo una grande spossatezza, insieme alla paura: ‘Se finiamo in ospedale, chi penserà a nostro figlio?’".

Molti hanno trovato anche degli aspetti positivi nel lockdown. Hanno riscoperto il piacere di stare in famiglia, l’intimità domestica.

"Da questo punto di vista è stato positivo. Per tre mesi non ho visto rompiscatole, non ero sotto pressione. È stata una vacanza dai problemi. Abbiamo fatto un sacco di cose insieme: mia moglie è psicologa e mi sono improvvisato regista video per i suoi brevi filmati, anche se lei non sempre rimaneva soddisfatta del mio lavoro...".

Il vostro ultimo film Odio l’estate è stato campione di incassi. Mentre non si può dire altrettanto di quello precedente, Fuga da Reuma Park...

"Dica pure una boiata pazzesca. È stata sbagliata la collocazione. Era stato pensato per la tv, poi chissà perché abbiamo cambiato idea. In seguito le circostanze ci hanno fatto incontrare Massimo Venier, che ha contribuito molto alla riuscita di Odio l’estate".

Avete già qualche progetto in cantiere?

"Oggi è molto difficile girare. Tra una settimana dovremmo trovarci noi tre, ma non penso che gireremo un altro film prima di un paio d’anni".

I produttori però insisteranno, visto il successo...

"Certo, ma qui i produttori non ci sentono. Stiamo parlando io e lei".

Ha mai sperato che Messi venisse davvero all’Inter?

"Non l’ho mai voluto. Lo considero il numero uno nella storia del calcio, per lui ho una venerazione totale. Ma spendere 500 milioni per un giocatore di 33 anni... Se è logoro? È ancora in forma? Se non si ambienta? Preferirei spendere 100 milioni per un giovane. A Torino ci hanno già insegnato che non basta ingaggiare un campione pluridecorato per vincere la Champions... Non si accorge? Sto ridendo".