Mario Giacomelli fu un pazzo? O volle essere già in vita postumo a se stesso? O che segreto fuoco animò fino alla fine questo fotografo, scrittore della luce alleato di poeti – da Leopardi a Lee Masters? Al Mufoco – il Museo di fotografia contemporanea di Milano – va in scena fino al 19 maggio, curata dalla nipote Katiuscia Biondi Giacomelli, responsabile dell’archivio, un processo creativo estremo, un testamento rovesciato in tratti infantili e spettrali.
Il Mufoco, che presiedo e ho riavviato da due anni, è reduce da una grande mostra alle scuderie del Quirinale sul paesaggio italiano, insieme a Fondazione Alinari e, insieme a tante attività, dalla grande mostra di Gabriele Basilico a Milano. E ora riapre i battenti e festeggia venti anni, realizzando (in tempi record) un progetto firmato studio Dotdotdot in favore anche del pubblico fragile con un intervento Pnrr. E con la mostra inedita di uno dei fotografi più autorevoli del ‘900: Questo ricordo lo vorrei raccontare. Mario Giacomelli. Ma questi scatti estremi risalenti a metà anni ‘90 di un maestro acclamato e storicizzato non danno vita a una tradizionale mostra, a foto da contemplare, bensì a un flusso, a una messa in scena.
È un gioco tormentoso, una fotografia mormorio, un pensiero fotografante. È la messa a fuoco di un mondo “altro” da quello immortalato e adorato fino ad allora. Quasi che i gesti estremi di Giacomelli, compreso quello di apparire lui stesso quasi fantasmatico negli scatti, tra maschere peluche, cani finti, in allestimenti quasi da teatrino onirico o rito di enigmi biografici, nascessero da un ribaltamento, da un desiderio – reso esplicito in un lucido j’accuse al mondo contemporaneo che si condensa in una frase del maestro in apertura.
Come altri artisti del Novecento, pare che in Giacomelli sorga una specie di furia contro il mondo fino a un certo punto osservato e amato con speranza. Ma se in Pasolini quella furia allestisce il teatro feroce dei suoi ultimi film, in Giacomelli sembra rovesciarsi in una nuova infanzia libera e inventiva. Come se da quel mondo volesse liberarsi, e aver la libertà di fregarsene, rientrando in un suo cortile magico. Se in Pasolini passione e ideologia finiscono in una funesta rappresentazione dei corpi e delle relazioni, in Giacomelli invece si riavvia una specie di festa primaria, allucinata e bambinesca, sacra e contadina.
Non a caso, nel bell’intervento in catalogo Katiuscia Biondi Giacomelli riporta parole del maestro su questo lavoro dove parla di “purificazione”. Al pari di Montale che, divenuto un classico in vita, un monumento della poesia, volle decostruire la sua perizia poetica in piccoli testi di minima fattura, così Giacomelli esce dalla uscita di sicurezza di ogni artista per dire ai suoi estimatori: "Ehi, pensate di sapere cosa faccio?" Ma lo fa con più sfrontata libertà, con una nuova libera indagine visionaria del mondo. E così, nei pressi di casa sua, diviene uno sciamano, un evocatore di riti, un fanciullino leopardiano che ricerca la percezione primaria del mondo e dei suoi reperti.
Ci si immerge, divenendo lui stesso spettro, e ultimo mago, anticipando molto di quel che la fotografia è e sarà. Un lavoro senza pudore e pure intimissimo, sfidante. E le sue vedute quasi pittoriche, le terre, gli spazi trattati come linguaggio, appaiono qui rare come citazioni, sogni, un altrove dal nuovo “qui” magico, dove Adamo - Giacomelli prova a ridare nuovi nomi alle cose, in un paradiso povero. Katiuscia è contenta del nonno con una tenerezza infinita e una precisione chirurgica nell’allineare centinaia di provini che illustrano il processo da cui nascono le serie di scene esposte. Immagini non da “capire” come amava dire Giacomelli – ma da interpretare, ovvero far reagire con la vita dell’osservatore. Intanto, Mufoco si avvia per un imminente patto di valorizzazione con il ministero della Cultura a confermarsi primario museo di rilievo nazionale di fotografia.