
Franco Battiato: il cantautore è scomparso nel 2021, a 76 anni
Roma, 23 marzo 2025 – Da San Giovanni Valdarno a Verona. Era l’estate del 1982 e Franco Battiato si rese conto, per strada, che il suo sogno da ragazzino si era realizzato. Bloccato con i suoi musicisti in un ingorgo in Toscana, chiesero agli altri automobilisti in coda che cosa stesse accadendo. La risposta fu fulminea e fulminante, in un certo senso: aspettavano di andare al concerto di Battiato. Qualche mese dopo, il 17 settembre, era all’Arena di Verona. Un teatro a cielo aperto in cui unire i sogni di rock’n’roll da ragazzino (la prima chitarra giocattolo presa ai grandi magazzini di Catania) e la Passione secondo Matteo di Bach, ascoltata per la prima volta in chiesa, da un organo, le cui corde gli entrarono direttamente dentro il cuore.
L’Italia cantava Battiato e La (sua) voce del padrone che era appena uscita un anno prima. Anche l’Italia, quella mitica che aveva appena vinto il terzo Mondiale, alla faccia degli scettici, rimettendo al loro posto Argentina, Brasile, Polonia e Germania Ovest, anche l’Italia azzurra cantava Battiato. Cuccurucucu in coro: magari un po’ stonati, ma ebbri di felicità quei ragazzi del pallone, così criticati, così osteggiati. E silente il loro padre putativo, Enzo Bearzot, li lasciava fare. Perfino Dino Zoff – il vecio in campo (l’altro, conterraneo, era in panchina), il capitano che sembrava muto per lo scarso numero di parole pronunciate ma che era invece implacabile – sul pullman che riportava gli azzurri nel ritiro blindato dopo che avevano impresso una svolta impensabile a quel mondiale di calcio, cantava quel ritornello. Che suonava come uno sberleffo a chi non aveva avuto fiducia in quel gruppo. Che era la decompressione perfetta dopo la tensione delle partite. La voce del padrone, nonostante il citazionismo delle canzoni, il cut up visionario, rappresentava davvero il sentimento popolare in quell’estate del 1982. Che si compiva, come ultimo atto, proprio con il concerto all’Arena di Verona.
Battiato, 37 anni allora, aveva davanti un futuro luminoso. Era entrato, nemmeno in punta di piedi, ma in maniera dirompente nella musica pop, senza essere pop lui, ma diventando in fretta popolare. Il punto più alto, il momento più difficile per un artista. Perché replicare all’infinito La voce del padrone sarebbe stato semplice, ma la musica, quel sacro fuoco che l’aveva mosso sin da ragazzino a lasciare la Sicilia e a cercare fortuna, aveva altre traiettorie nella sua testa. Altri orizzonti che sarebbero sembrati, sul momento, perduti (per citare un suo album) ai più. A maggio, il 21 per l’esattezza, saranno quattro anni che Battiato non c’è più. Ma nel giro delle ricorrenze ce ne è una, ben più impellente. Domani avrebbe compiuto ottant’anni. Cosa è stato Battiato e quanto manca sembrano due domande retoriche. Perché la risposta è davvero scontata, anche se Battiato non faceva dischi da tempo.
A raccontare la sua vita, come un romanzo che percorre la storia contemporanea di questo Paese, ci ha provato Stefano Zuffanti con un titolo emblematico di una ponderosa biografia Sacre sinfonie (Il Castello Editore). C’è il passaggio iniziale da Francesco (questo il nome all’anagrafe) a Franco, c’è il salto verso quello che poteva sembrare l’ignoto (ma solo se sprovvisti – e lui non lo era – di passione e visione) dalla Sicilia (calda) alla Milano (fredda). Ma Milano fu da subito le occasioni avute e da non perdere per trasformarle in opportunità. Ci sono – se uno si ferma solo per un istante a pensare alla vita di Battiato – tanti Battiato che all’apparenza potrebbero sembrare uno in contraddizione con l’altro, privi di coerenza. Quell’istante però diventa ben speso se ci scivola davanti tutto quello che è stato, le sue infatuazioni giovanili (il sacro e il profano, la classica e il rock), la pervicace costanza nel guardare il futuro e provare a immaginarselo. Anche quando le tinte erano assai fosche. 1991, a esempio: a novembre esce Come un cammello in una grondaia. Pianoforte, archi e poco altro, la ricerca di una purezza, non solo nel suono, mentre il Paese, la Povera patria, mostra decadimento, sporcizia morale e metastasi corruttive e mafiose che porteranno alle stragi di Capaci e via D’Amelio.
Non c’è un unico Battiato, per fortuna, ma il suo sincretismo tende davvero all’Assoluto. Il cerchio che chiude nel 2008 reinterpretando E più ti amo di Alain Barrière (l’aveva fatto per la prima volta da ragazzino nel disco della Nuova Settimana Enigmistica) è davvero un puro atto d’amore. Maturato negli anni per poi sbocciare.