Domenica 6 Ottobre 2024
CLAUDIO CUMANI
Magazine

Francesco Guccini: "Il mio ’68 hippy tra politica e osterie"

"Qualcuno dell’Equipe 84 mi regalò un disco di Bob Dylan e così compresi cosa significava cantare il tempo nuovo. Di quel periodo ho vissuto il lato pacifista"

Francesco Guccini (Ansa)

Francesco Guccini (Ansa)

Bologna, 8 aprile 2018 - Guccini, dica la verità: lei era uno di quelli che nel ’68 occupava la facoltà di Magistero perché lì c’era un sacco di ragazze?

Il Maestrone se la ride: "Beh, sì di donne in effetti ce ne erano parecchie ma io non ho mai ‘intortato’ all’università. Eppoi di notte non mi fermavo a dormire... È vero però che le ragazze erano diventate più avvicinabili e gioiose. Le studentesse fuori sede comunicavano la felicità della libertà con gli occhi". 

Guccini nel 1968 aveva 28 anni, aveva già scritto Auschwitz (che è del ’64) e Dio è morto (che è di un anno prima) e non pensava proprio di fare il mestiere di cantautore. "Forse l’insegnante". Era il periodo in cui lui, arrivato da tempo da ‘quella piccola città, bastardo posto’ che era Modena, veniva ‘cullato dai portici cosce di mamma Bologna’. "Di pomeriggio fino alle 8 di sera andavamo ai Poeti, poi la sera puntavamo da Gandolfi, fuori Porta San Mamolo, l’osteria che sarebbe diventata il Moretto". Storie andate di cui resta solo la memoria, qui a Pavana, sull’Appennino toscano, dove Francesco si è ritirato da tempo e dove ora sta lavorando alla seconda parte di Croniche Epafaniche, il suo romanzo di trent’anni fa.

È buffo parlare con lui, che s’arrabbia quando lo si definisce cantautore politico, del cinquantenario del ’68 ma... il carisma lo impone. Guccini, che ricordi ha di quel periodo? 

"Molto vaghi, è passato troppo tempo. Mi viene in mente il clima di fervore, le discussioni, le iniziative, la voglia di ragionare attorno alla politica. Allora mi colpiva il fatto che all’università ci fossero molti studenti stranieri, soprattutto greci ad Ingegneria e americani a Medicina. Erasmus sarebbe arrivato vent’anni dopo... Fu in quel periodo che conobbi Deborah Kooperman, arrivata a Bologna con una borsa di studio, con la quale cominciai a suonare". 

Si avvertiva il profumo della rivolta nell’aria?

"Quella voglia lì era cominciata a circolare già dai primi anni ’60, lo dicono anche le mie canzoni. Rivolta forse è un termine eccessivo: c’era un senso del cambiamento, si percepiva che qualcosa sarebbe dovuto accadere". 

Quali erano allora i suoi punti di riferimento? 

"La musica, in primo luogo. E poi le letture, Borges su tutti. I miei libri preferiti erano romanzi cult come Il signore degli anelli, il primo Eco sulla semiotica, Pavese, Pratolini, Le mille e una notte. Sono i testi della mia formazione. Eppoi poesia, tanta poesia". 

Quale era invece la colonna sonora di Guccini nel ’68? 

"Fu la scoperta di Bob Dylan a sconvolgermi. Andò così: invitai un amico americano a casa per fargli ascoltare sul registratore Geloso i pezzi di Brassens e di Brel. Lui rimase perplesso e mi disse che era meglio Dylan. ‘Chi Dylan Thomas, il poeta?’, feci io. Poi qualcuno dell’Equipe 84, non ricordo chi, mi regalò un disco di Bob e cominciai a capire cosa significava davvero cantare il tempo nuovo. Dylan è uno che ha cambiato il corso della canzone".

E lei in quel periodo dove cantava? 

"Non facevo ancora concerti, quelli sarebbero arrivati dopo il ’70. Cantavo con amici, nelle osterie ma non ancora alle Dame che avrebbe aperto da lì a poco. Con qualche ragazzo tentammo di aprire una sorta di Folkstudio in un appartamento di Bologna dove viveva un amico. Ci si vedeva il giovedì sera ma facevamo troppo rumore e i vicini ci cacciarono subito". 

Che brani compose in quell’epoca? 

"A parte Per quando è tardi e Il frate, scrissi una canzone sull’invasione sovietica della Cecoslovacchia e sul martirio di Palach intitolata Primavera di Praga".

Sono passati cinquant’anni dalle nostre barricate sessantottine. Lei crede abbiano senso le celebrazioni a cui stiamo assistendo? 

"Credo sia solo un rito che resta comunque utile per preservare la memoria. A me ricorda soprattutto quanto eravamo giovani. E il pensiero mi attanaglia". 

Ha mantenuto amici di quell’epoca? Li vede ancora?

"Qualcuno sì, alcuni sono in pensione, altri ancora fanno la professione. Musicisti? No, ma allora conoscevo davvero pochi colleghi. Stimavo ad esempio il Nuovo Canzoniere Italiano ma non li ho mai incontrati". 

Le rivolte sfociano per forza in violenza? 

"Io ho vissuto il lato pacifista del ’68, gli anni del ‘facciamo l’amore e non la guerra’. Allora la cultura hippy americana aveva un peso molto forte. L’onda lunga è arrivata fino al ’77 e ha aperto una pagina difficile, dura e violenta che Bologna conosce molto bene". 

Qual è stato il pregio di quegli anni gridati?

"Quello di aver gettato semi da cui sarebbero sbocciate le grandi battaglie civili referendarie. E di aver fatto nascere una cultura libertaria e femminile con cui ancora ci si confronta". 

Si dice che il ’68 abbia riguardato soprattutto la gioventù borghese. C’erano rapporti con quella che un tempo si chiamava la classe operaia? 

"Sarò sincero, di operai ne ho conosciuti pochi. Anche se lo slogan era ‘studenti e operai uniti nella lotta’, ci si frequentava per lo più fra universitari. Mi colpì molto la presa di posizione di Pasolini, dopo gli scontri di valle Giulia a Roma, a favore dei poliziotti, figli del sottoproletariato. Capii subito che aveva ragione". 

È stato testimone oculare del mitico maggio francese?

"Non di persona, a Parigi ero andato un anno prima. Nel ’66 ero stato, invece, ad Amsterdam per conoscere i Provos, un movimento olandese di controcultura di cui molto si parlava. Il ’68 per me fu l’anno di Barcellona, dove incontrammo sia giovani conservatori che liberali. C’era ancora Franco e ricordo che i ragazzi di un circolo di sinistra continuavano a dirci di non frequentare quelli che facevano il servizio militare perché erano fascisti". 

Il primo album Folk Beat n.1, quello di Auschwitz e di Statale 17, è del ’67. È stato un profeta o un testimone? 

"Né l’uno, né l’altro. Gli echi di quello che sarebbe accaduto, lo ripeto, erano cominciati molto prima e comunque le canzoni sono un’altra cosa rispetto alla dimensione politica".

In confidenza, nessun rimpianto per quella lontana stagione?

"Certo, rimpiango la gioventù e la Bologna meravigliosa degli anni ’70. Ma le cose cambiano. Quando mi sono ritirato a Pavana è stato un po’ come ripartire da dove tutto era cominciato da bambino. Adesso scrivo romanzi e non penso più alla musica. E, quando scendo in città, resto frastornato e non vedo l’ora di tornare quassù".