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Una scena di Fiume o morte di Igor Benizović
"El dise che senza Fiume e l’Adriatico oriental, la vittoria xè mutilada. Nol vol permeter che quela che un tempo xè stata tera romana sia governada dala schiaveria bastarda e dala sua mandria di porci, e neanche che el croato lurido s’arampichi sul muro veneto come una scimia in furia": il dialetto non inganni, si parla ovviamente di Gabriele D’Annunzio e della sua mirabolante impresa di Fiume, annunciata con parole fiammeggianti e feroci e portata a termine in un misto di bellicismo, nazionalismo, fantasia sfrenata, libertinismo.
L’uso del dialetto è presto spiegato: alla presa di Fiume e ai sedici mesi del poeta-governatore è dedicato un singolare, originalissimo documentario, una docufiction, che riprende anche nel titolo uno dei tanti motti lanciati dal Vate: Fiume o morte!, nei cinema italiani da lunedì a mercoledì. L’ha firmato un regista fiumano, Igor Bezinović, grazie a finanziamenti ricevuti da Slovenia, Croazia e Regione Friuli Venezia Giulia, e la voce narrante, anzi le voci narranti – visto che se ne alternano diverse – non parlano in italiano né in croato, ma in dialetto fiumano, che suona molto simile al triestino ed è quindi ben comprensibile.
Che resta dunque di D’Annunzio nella Fiume odierna – Rijeka in croato – si è chiesto e ha chiesto Bezinović. Poco, pochissimo, ma forse anche troppo. I più, fra gli interpellati per strada e inseriti nel prologo di Fiume o morte!, dicono di non sapere chi sia questo D’Annunzio; chi ne sa qualcosa, se croato, dice che era "un fascistone che ha occupato Fiume e dintorni" o "un artista, ma anche un dittatore"; gli italiani interpellati (turisti di passaggio) dicono di conoscere D’Annunzio "purtroppo, perché era un fascista", ma anche (un fiumano che parla italiano) che era "un buon artista, poeta, grande baciatore, credo che amasse Eleonora Duse".
Insomma, dev’essersi detto Bezinović, ce n’è abbastanza per gettarsi a capofitto nella storia e provare a raccontare l’avventura dannunziana mettendo la città e i suoi abitanti al centro della trama, con tanto di uso prevalente del dialetto locale. Finisce così che la docufiction prende i suoi attori per strada – sei-sette uomini di mezza età e senza capelli si alternano a interpretare il poeta – e ripercorre la vicenda di D’Annunzio e dei suoi legionari seguendo il filo della storia e i documenti, mescolando però passato e presente, foto d’epoca e riprese per strada. Fiume o morte! è dunque un racconto corale, condotto sul filo divertito dell’ironia, con tratti grotteschi e gli improvvisati attori che a volte sbagliano e ripetono la battuta, ma Bezinović procede con rigore storico e non rinuncia a far dialogare passato e presente, tanto che a un certo punto, in una vicenda che ruota attorno all’identità e al nazionalismo, mostra quanta parte della Rijeka contemporanea – nelle sue industrie, nel suo porto – sia stata “comprata“ da grandi aziende straniere.
Il regista alla fine concede poco alla retorica estetizzante del fiumanesimo come grande avanguardia politico-artistica, e tuttavia non la trascura, pur mostrando un D’Annunzio sovreccitato, consumatore di cocaina, anticipatore per molti versi (soprattutto estetici e rituali) del fascismo che verrà; un D’Annunzio – questo sì – fervente nazionalista, al limite del razzismo antislavo.
Si sa tutto o quasi tutto dell’impresa fiumana, documentata dalla bellezza di diecimila foto. Furono sedici mesi in cui fu impossibile annoiarsi. Si riversarono in città diecimila giovani “legionari“ e la vita di ogni giorno fu necessariamente sopra le righe, per le tumultuose vicende politiche e diplomatiche, per l’impetuoso impatto (militare ma anche erotico) dei giovani e spesso spregiudicati legionari, per l’enorme difficoltà che vi fu, a un certo punto, anche nel garantire i rifornimenti alimentari alla popolazione, visto che la città fu assediata ed esclusa dai flussi commerciali (tanto che si organizzò un servizio di pirateria per depredare mercantili di passaggio).
Com’è andata la storia è noto: D’Annunzio non poteva accettare che la città fosse governata dalla "schiaveria bastarda" e occupò Fiume – destinata a essere una fragile città-stato secondo gli accordi di Versailles – col progetto di annetterla all’Italia, trovando però l’opposizione del Regno, che nel 1920 firmò il Trattato di Rapallo con il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni confermando il destino della città. D’Annunzio tuttavia non lasciò Fiume, a costo di annullare il plebiscito subito convocato per avere conforto nella sua scelta di resistere: quando si accorse che i fiumani, stanchi dell’isolamento, stavano votando contro di lui, fece devastare i seggi elettorali e rinnegò il voto. Del plebiscito non esistono “stranamente“ fotografie e così Benizović ha ricreato le scene e generato nuove “foto d’epoca“ in bianco e nero, con un’altra delle sue trovate.
D’Annunziò dunque restò nel Palazzo del governatore, fece scrivere ad Alceste De Ambris, sindacalista (ex) rivoluzionario, un’originale e avanzatissima Costituzione, poetica e socialisteggiante, mai entrata però in vigore, e battezzò la sua città-stato con un endecasillabo: Reggenza italiana del Carnaro. Tutto finì sotto i cannoni del Regno d’Italia nel "Natale di sangue" del 1920 (oltre 50 morti, tutti italiani, sui due lati del fronte), sedici mesi dopo "l’entrata santa" del 12 settembre 1919 (virgolettati con copyright D’Annunzio, naturalmente). Il Vate, sconfitto, lasciò la città, per mai più tornarvi.
Che resta dunque di lui a Rijeka? Il ricordo, più o meno, di un poeta un po’ strambo e "fascistone" e pochi segni tangibili: un piccolo ritratto in rilievo sulla parete esterna di una villa, un altro ritratto su tela nel Palazzo del governatore (ma con una spalla dipinta troppo bassa), uno sbiadito slogan dei legionari dannunziani – “Morto sì, vivo no!“ – su un muro dell’università. E poco altro. Nel 2019, per il centenario dell’"entrata santa", a Trieste fu scoperto un monumento al poeta; "noi a Fiume – commenta la voce narrante di Fiume o morte! – il monumento no xe faremo".