Nessuna sorpresa, buona sorpresa. Adagio che s’addice a molte giurie cinematografiche, compresa quelle veneziane, in grado, nel passato, di compiere scelte sciagurate. Il Leone d’oro a La stanza accanto era inevitabile: sia per le intrinseche qualità di un racconto crepuscolare incentrato su la più umana delle fragilità, sia per l’assenza di veri rivali in grado di contenderglielo. Pedro Almodóvar ha diritto a essere doppiamente felice. Perché questo premio lo risarcisce di assurde omissioni visto che è in quasi mezzo secolo di carriera non ha mai ottenuto, fino ad oggi né una Palma d’oro né un Leone d’oro, se si esclude quello alla carriera del 2019, sia perché gli è stato decretato da una giuria presieduta da Isabelle Huppert in cui erano eccezionalmente presenti ben cinque registi di grande fama.
Il Gran premio assegnato a Vermiglio può sorprendere; vi erano anche tra gli italiani film più compiuti, meglio bilanciati nelle proprietà espressive. L’epopea intima di una remota comunità di montagna messa in scena con rigore non va al di là dal confermare il talento di Maura Delpero. Lo stesso talento che viene premiato, in forma diversa se non opposta, nella persona di Brady Corbet, autore del debordante The Brutalist capace di fare sfoggio delle potenzialità disordinate di un fiume in piena che tracima anziché giungere alla foce.
Non volendo o potendo premiare in altro modo (Walter Salles o Fernanda Torre) Io sono ancora qui, la giuria ha optato per la miglior sceneggiatura che non è esattamente il punto di forza di un film forse destinato per la sobria forza espressiva con cui ricorda la violenza della lunga dittatura brasiliana a salire più in alto nei gradini del podio. Nella scelta delle interpretazioni devono aver pesato più le idee e il comune sentire che le performances degli attori. Vincent Lindon dimostra anche in Jouer avec le feu di avere la straordinaria capacità di mettersi in sintonia con il pubblico ma nel disegnare il padre di un figlio ribelle, deciso a raggiungere i naziskin della destra più violenta, non supera se stesso. Il Craig di Queer poteva essergli preferito senza scandalo.
Premiando la Nicole Kidman di Babygirl, cinquantenne manager in carriera finalmente soddisfatta dalla sottomissione a uno stagista strafottente, si è anche scelto di rivendicare il diritto al piacere sessuale femminile, qualunque esso sia. Tema d’attualità che Babygirl tratta però con furbizia sfruttando doti che Kidman non mai cessato di esprimere nell’interpretare un ruolo che inizialmente le fu affidato, a sorpresa da Kubrick in Eyes Wide Shut.
Anche il premio alla regista georgiana di April (coprodotto da Luca Guadagnino) può essere considerato un gesto di adesione all’imperante volontà di essere corretti. La opera prima di Dea Kulumbegashvili, Beginning che raccontava la piccola comunità dei testimoni di Jehovah georgiani, era ben più convincente della denunzia del patriarcato che intralcia la volontà e il lavoro quotidiano della dottoressa ostetrica
protagonista del film premiato. Qualche perplessità anche per il premio Mastroianni: il pur bravo Paul Kircher (figlio di Irène Jacob) non è proprio un novizio. Leurs enfants après eux è il suo sesto film.