Lunedì 25 Novembre 2024
PINO DI BLASIO
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Fiat, Agnelli e l'amico Villaggio, Paolo Fresco: "Il mega presidente galattico sono io"

Il manager profeta della globalizzazione si racconta, dagli anni del liceo con il comico all’esperienza del Lingotto dopo Romiti "Ricordo la curiosità irrefrenabile dell’Avvocato, valutava gli uomini parlandoci. All’Italia di oggi servirebbe un Mario Draghi"

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A 87 anni Paolo Fresco ha deciso di fermare il suo mondo, mettendolo nero su bianco prima di scendere. Per 34 anni manager di General Electric, vicepresidente esecutivo di Jack Welch, il mitico vertice della corporation più grande del mondo. Poi cinque anni alla guida della Fiat, scelto dall’avvocato Agnelli come presidente dopo l’era Romiti. Dal 2003 Paolo Fresco cura i suoi affari dalla splendida villa di Fiesole, ricca di capolavori d’arte e con una vista mozzafiato su Firenze. Ha scritto un libro di memorie, ’Mr. Globalization’, edito da La Nave di Teseo. Pubblicato nell’anno in cui la globalizzazione è stata messa in soffitta da un virus letale.

"Questa pandemia non è colpa della globalizzazione – ribatte Paolo Fresco –. Il virus alimenta la tentazione a erigere nuove barriere, ma si è visto che non serve. L’umanità è andata avanti, puoi costruire muri artificiali per un tempo limitato, puoi decidere lockdown temporanei. Ma poi il mondo tornerà ad aprirsi".

Non può negare che la paura del Covid abbia dato una picconata all’idea ineluttabile di globalizzazione...

"Il mondo più integrato ha accelerato la diffusione del virus ma lo sconfiggerà più velocemente. Le multinazionali farmaceutiche stanno investendo miliardi per la ricerca sui vaccini. Nel giro di qualche mese avremo le cure: 100 anni fa la Spagnola uccise per molto più tempo".

Cosa le resta della sua giovinezza a Genova?

"Ho fatto il liceo con Paolo Villaggio, per 60 anni siamo rimasti amici. Come tutti i legami forti, lui ha influenzato me e io lui".

Uno strano legame, il ragionier Fantozzi amico intimo del presidente di multinazionali...

"Il punto è proprio questo. Quando Paolo parlava di megapresidente galattico e di poltrone di pelle umana, prendeva spunto dal mio mondo. Mentre la sua enfasi nel narrare un piccolo burocrate che reclama il suo spazio, ha finito per influenzare i miei rapporti nelle società che guidavo".

È stato al fianco di Jack Welch, fu lui che la battezzò ’mister globalization’...

"Un’avventura fantastica, una sfida enorme che vincemmo insieme con Jack. La General Electric era la società leader negli Stati Uniti. Noi la trasformammo nella corporation più grande in tutto il mondo. Welch accettò la mia teoria, non bastava essere i più bravi in America, dovevamo essere i più forti del mondo".

Che effetto fa vedere Google, Apple, Facebook e Amazon, che capitalizzano 5mila miliardi di dollari, ma danno lavoro a sole 250mila persone?

"L’economia si evolve, diventa meno corporea. General Electric ha perso la sua leadership per tante ragioni, la principale è stata la scelta del successore di Welch. Jack è scomparso qualche mese fa, per anni mi ha ripetuto di aver fatto tante cose buone ma di aver sbagliato ad affidare GE a Jeff Immelt".

Dall’America a Torino. Perché Gianni Agnelli la chiamò alla guida della Fiat?

"Conoscevo l’avvocato Agnelli da quando lavoravo alla Cge. Dovevo relazionare al grande capo due volte all’anno. Agnelli mi riceveva, in 5 minuti mi sparava 50 domande saltando dalla finanza alla cultura. Aveva una curiosità irrefrenabile. Valutava gli uomini parlandoci".

Si ricordò di quei colloqui per affidarle la guida della Fiat?

"Stava preparando la successione, lo sbarco della Fiat nel 2000. Mi offrì il posto di Romiti, guidai l’azienda dal 1998 al 2003. Era un periodo difficile per la Fiat, eravamo troppo piccoli e non avevamo le risorse per gli investimenti necessari a sopravvivere".

Il suo capolavoro fu il ’put’ con General Motors, l’accordo che Marchionne sfruttò ottenendo 2 miliardi di dollari...

"Nella mia ricerca di partner arrivai all’alleanza con Gm. Erano molto interessati, ma volevano una quota di minoranza. Forte dell’insegnamento ’pesce grande mangia pesce piccolo’, ottenni la garanzia a vendere anche la maggioranza, nel caso la Fiat si fosse trovata in difficoltà. Marchionne fu poi bravissimo a pretendere il rispetto dei patti".

Recentemente è morto Cesare Romiti. Cosa era per lei?

"Un presidente efficiente, determinato, duro con i sindacati. Diamo a Cesare quel che è di Cesare, la marcia di 40mila fu una virata nelle relazioni sindacali. Romiti era un uomo del Novecento, vedeva le cose in un contesto nazionale. Era italo-centrico, ma il mondo stava cambiando, non era più il suo".

Da Romiti a Marchionne...

"Mi piace pensare a una staffetta, a noi che ci scambiamo il testimone. Marchionne ha riconosciuto la bontà dell’eredità che gli avevo lasciato in Fiat. E l’ha sfruttata da grande manager".

Anni fa disse che Fiat avrebbe guadagnato con Chrysler, ma poi bisognava allearsi con Bmw o Peugeot.

"Sono sempre convinto che nel business dell’auto ci sia spazio solo per 3 o 4 grandi case. L’abilità di Marchionne è stata rilevare una Chrysler vicina al crac e rilanciarla. Ora c’è bisogno di rafforzarsi in Europa: con i tedeschi non c’è partita, troppo ampio il divario. I francesi sono alleati migliori, ma non devono avere lo Stato nella proprietà. Pensai alla Peugeot, sono stato un facile profeta".

Disse anche che il business dell’auto era superato...

"Non avevo previsto la rivoluzione tecnologica e l’impatto dell’elettrico. Elon Musk e Tesla che capitalizza più dei colossi sono un fenomeno di Borsa".

Fu sponsor di Matteo Renzi da quando era presidente della Provincia di Firenze. Oggi chi vede come leader per l’Italia?

"Non vorrei passare per uno che porta male. All’Italia oggi servono uomini che capiscano bene i meccanismi della globalizzazione e sappiano navigare nei meandri dello statalismo europeo e italiano".

È il ritratto di Mario Draghi.

"L’ho conosciuto quando era dirigente del ministero del Tesoro, poi da governatore di Bankitalia. Era un cervello per la politica finanziaria italiana, è diventato un gigante grazie al suo ’whatever it takes’. Draghi ha fatto un lavoro meraviglioso e si è circondato di gente capace".

Cosa resterà di Paolo Fresco, profeta della globalizzazione?

"Da anni ho deciso di lasciare tutti i miei beni alla rete di Fondazioni, ispirato dal principio del ’give back’, del restituire qualcosa. Anni fa ho donato alla New York University 25 milioni di dollari per le ricerche sul Parkinson, la malattia che mi ha strappato mia moglie Marlene. Ho trasformato un podere nel Chianti, in una casa vacanze per bambini con problemi sociali. È affidata all’Istituto degli Innocenti, una delle eccellenze di Firenze che assiste bambini da sei secoli. Sto pensando di donare la mia collezione di opere d’arte all’Istituto, per farne un museo nel cuore di Firenze. Anche questa è globalizzazione".