di Aldo Baquis
A quasi 60 anni dalla sua drammatica impiccagione nella piazza al-Marjeh di Damasco, la celebre spia israeliana Eli Cohen continua a far palpitare i cuori degli israeliani. Il suo è certamente uno dei miti più radicati nello Stato ebraico. Il modesto ebreo nato ad Alessandria di Egitto, immigrato in Israele nel 1957 e poi addestrato all’arte dello spionaggio internazionale, fino al suo inserimento nelle alte sfere siriane nei critici anni precedenti la Guerra dei sei giorni (1967), ha sempre tenuta accesa la fantasia degli israeliani. Essi lunedì hanno trattenuto il fiato quando il capo del Mossad David Barnea, in una rara apparizione pubblica, ha annunciato di aver adesso messo la parola fine a uno degli interrogativi rimasti aperti in tutti questi decenni: quale sia stata la causa determinante del suo arresto da parte dei servizi segreti siriani.
Accantonando gli aggiornamenti sugli sforzi di Netanyahu per la formazione di un nuovo governo, i giornali radio israeliani sono allora tornati ad appassionarsi della questione. Nel 1965, la sua cattura fu dovuta a un numero eccessivo di messaggi in codice che da Damasco spediva in Israele? O commise un errore di comportamento? O fu messo in difficoltà dai suoi stessi superiori a Tel Aviv, che lo pressavano con richieste incessanti di informazioni ? La sua ultima missione a Damasco, non era stata forse superflua?
All’apertura di un museo in sua memoria a Herzliya (Tel Aviv) Barnea ha reso pubblico l’ultimo telegramma della spia, datato 19 gennaio 1965: informa di una riunione avuta la notte precedente nel Comando generale siriano con l’allora presidente Amin al-Hafez e alti ufficiali. Fu l’ultimo suo atto da uomo libero. "Posso rivelare oggi, per la prima volta – ha detto Barnea – dopo aver compiuto una ricerca approfondita: egli fu catturato per il semplice fatto che le sue trasmissioni furono intercettate e ‘triangolate’ dal nemico. Questo è ormai un dato di intelligence".
Cohen, che parlava fluentemente arabo e francese, era stato ingaggiato dall’intelligence nel 1960. Gli era stata poi confezionata addosso la figura di Kamal Amin Thabet, con cui cominciò ad agire in Argentina, fingendo di essere un commerciante originario della Siria. Si presentava come uomo d’affari tanto facoltoso quanto generoso, e presto cominciò ad allargare il cerchio delle conoscenze. I servizi segreti non avevano lasciato niente al caso: avevano anche provveduto a dotarlo di un orologio di qualità, un Eterna Matic di 18 carati, che faceva grande impressione.
Nel 1962 fu giudicato pronto per passare a Damasco, dove si presentò come un patriota siriano reduce da successi economici in America Latina. Cominciò così una rapida arrampicata negli ambienti politici e militari siriani in anni critici (in ottica israeliana) in cui si stava saldando la cooperazione militare con l’Unione sovietica e in cui i palestinesi stavano gettando le basi dell’Olp.
Da allora quello che era noto come “il nostro uomo a Damasco“ inoltrò oltre cento telegrammi con informazioni di importanza critica per Israele. Descriveva i rapporti interni di potere, le capacità militari, progetti di Stato, la disposizione delle forze in particolar modo nelle alture del Golan. Il suo ascendente in Siria era tale che qualcuno arrivò a fare il suo nome quale candidato alla carica di viceministro della difesa.
Tutto cambiò il 19 gennaio 1965, quando agenti di sicurezza fecero irruzione nel suo appartamento di Damasco e lo neutralizzarono per impedirgli di suicidarsi. Lo avrebbero interrogato per quattro mesi. Poi fu processato a porte chiuse, per impedirgli di rivelare segreti di Stato.
Che cosa lo aveva tradito, in definitiva? Si disse allora che la colpa era anche della radio pubblica israeliana, dopo la trasmissione di un servizio su sviluppi politici in Siria di cui a Damasco solo una cerchia ristretta di persone era allora a conoscenza. Lui comunque non aveva commesso errori. Ebbe solo la sfortuna di essere intercettato dai servizi siriani, potenziati da una nuova tecnologia giunta dalla Russia. "Eli è stato uno dei nostri migliori agenti – ha assicurato Barnea – Continua ad esercitare influenza su di noi, ci instilla ancora uno spirito di combattimento e di coraggio". Cohen fu condannato a morte ed impiccato nella piazza al-Marjeh, il 18 maggio 1965. Il corpo fu esposto per sei ore, con addosso un cartello in cui venivano dettagliate le sue colpe. Poi i servizi siriani lo fecero scomparire. Cohen, si apprese in seguito, fu sepolto tre volte, in località diverse.
Per il Mossad nemmeno oggi la partita è chiusa. "Continueremo ad agire per riportare i suoi resti in patria" ha promesso Barnea. Impresa quasi impossibile se è vero che si trovano sotto a un quartiere residenziale di Damasco.
Che Israele non lasci mai niente di intentato lo conferma comunque la vicenda del suo orologio. Alcuni anni fa la vedova di Cohen, Nadia, ha ricevuto un messaggio Internet da uno sconosciuto che le proponeva di acquistare l’orologio perduto. Dopo lunghe consultazioni col Mossad, emerse che l’orologio, anche se in condizioni deteriorate dal tempo, era quello originale e l’accordo fu concluso. L’orologio fu allora restaurato, poi esposto nella sede del Mossad. "È stato messo in bella vista, – ha detto Nadia Cohen – in modo che sia sempre visibile agli agenti che partono in missione. E che sia per loro di ispirazione".